Il 6 giugno il ticinese Renzo Ambrosetti, copresidente del sindacato Unia, è stato eletto presidente della Federazione europea dei metalmeccanici (Fem). Perché una federazione sindacale europea elegge alla sua presidenza un sindacalista che non proviene dall'Unione europea? E il suo lavoro sarà più che semplice turismo congressuale?

Renzo Ambrosetti, congratulazioni per la sua nomina!
Grazie, grazie!
I maligni diranno che adesso Ambrosetti farà il turista congressuale e si darà alla bella vita a Bruxelles…
Sarebbe bello! Una volta forse lo si poteva definire turismo congressuale, quando i contatti fra sindacati in Europa si limitavano a visite episodiche ed amichevoli. Ma oggi l'attività sindacale a livello europeo è un lavoro molto esigente. Ed è molto importante. Le grandi holding multinazionali funzionano infatti già da tempo sul livello internazionale. Se noi sindacati non riusciamo nemmeno a costruire una rete europea, allora vuol dire che abbiamo davvero un problema.
La sua nomina però stupisce: perché eleggere un sindacalista di un paese non appartenente all'Unione europea (Ue) alla testa della Fem?
Che io sappia due sono stati i fattori decisivi. Da un lato i miei colleghi europei sono più aperti di quanto non lo siano certe cerchie in Svizzera. Sono ormai attivo da più di dieci anni nell'esecutivo della Fem, e il mio contributo è apprezzato. Come il fatto che io parli più lingue e che provenga da un paese multiculturale, nel quale si pratica una vera cultura del consenso. Questa esperienza mi servirà anche nella funzione di presidente della Fem, in quanto anche lì si decide attraverso la ricerca del consenso e non a colpi di maggioranze. D'altra parte dovrebbe anche avermi aiutato l'esperienza che ho accumulato attraverso la fusione di Unia. Oggi a Bruxelles ci sono diversi sindacati del settore industriale. La Fem si sta dando da fare per riunirli in un unico e combattivo sindacato interprofessionale dell'industria.
Come sindacalista di un paese non appartenente all'Ue, non ci si trova in contraddizione a lavorare sul piano europeo? Pensiamo ai salari minimi: mediamente in Svizzera gli stipendi sono più elevati che nei paesi circostanti. Cosa accadrebbe se la Fem stabilisse degli standard in materia di salari minimi? La Svizzera dovrebbe adeguarsi verso il basso.
No, le cose non stanno così. Piuttosto si tratterebbe di necessari standard minimi contro il dumping salariale. La Fem già oggi ha adottato diverse Carte contenenti degli standard simili. Ad esempio la Carta sul tempo di lavoro, che fissa le 35 ore settimanali. Cosa di cui in Svizzera possiamo soltanto sognare. Ma questa Carta fissa soltanto un obiettivo. E tutti i sindacati appartenenti alla Fem, compresa Unia, sono tenuti ad avvicinarsi passo per passo a questo obiettivo. In questo modo si può tener debito conto delle diverse situazioni nei vari paesi. Tra l'altro la Conferenza europea dei sindacati (Ces) ha appena adottato una risoluzione sui salari minimi. E anche in questa risoluzione si tiene conto delle diverse regolamentazioni salariali nei diversi Stati membri. Malgrado ciò è estremamente importante che simili campagne per i salari minimi siano appoggiate e coordinate a livello europeo.
Questo vuol dire che pretenderà la settimana di 35 ore quando sarà a Bruxelles e che a Berna invece si accontenterà delle 40 ore?
Il mio predecessore alla Fem era belga, e neppure lui poteva essere l'uomo delle 35 ore. In Svizzera abbiamo condotto l'ultimo grande confronto sulla riduzione dell'orario di lavoro nell'industria delle macchine una decina d'anni fa. E l'abbiamo perso. Ma questo non vuol dire che la questione della riduzione dell'orario di lavoro sia stata cancellata dall'agenda. Oggi però l'obiettivo della nostra lotta sindacale è soprattutto l'ottenimento in tutta la Svizzera della settimana di 40 ore, che assolutamente non è ancora una realtà dappertutto, e un'efficace limitazione del debordante ricorso alle ore straordinarie.
Ma allora a cosa servono simili Carte se poi non vengono concretamente applicate?
La forza della coordinazione a livello europeo non può certamente risiedere nel livellamento generale delle condizioni di lavoro. Non è che tutti i paesi debbano necessariamente funzionare allo stesso modo. Ma i sindacati europei dovrebbero tutti lavorare nella stessa direzione. A questo servono le Carte della Fem.
In caso di necessità però tutti pensano prima di tutto a difendere il loro orticello. Lo si è visto ad esempio alla fine degli anni '90 quando ci fu la grossa ondata di licenziamenti nel gigante tedesco delle ferrovie Adtranz: allora i sindacati di categoria tedesco e svizzero lottarono più l'uno contro l'altro che assieme.
Le cose non stanno proprio così. La lotta dei lavoratori per la difesa del loro stabilimento di produzione è sempre e ancora l'alfa e l'omega di ogni successo sindacale. Ma oggi ci vuole nella stessa misura anche la coordinazione della lotta oltre le frontiere nazionali. Anche i salariati in Svizzera hanno bisogno di un movimento sindacale europeo forte e capace di lottare. Per questo uno dei miei obiettivi quale presidente della Fem sarà che tutti i membri delle federazioni sindacali nazionali siano contemporaneamente anche membri della Fem.
Quando e dove la Fem è riuscita negli ultimi tempi a mobilitare con successo al di là dei confini nazionali?
Nei casi di Airbus e della Volkswagen. Nel caso di Airbus si trattava di un'ondata di licenziamenti in diversi paesi europei, in quello della Volkswagen della chiusura di un grosso stabilimento.
A proposito della Vw: non sarebbe finalmente l'ora di un grande sciopero europeo nell'industria dell'automobile? Per l'Europa questo settore industriale è molto importante, e i suoi dipendenti con le ristrutturazioni sono fortemente sotto pressione.
In questo momento l'industria dell'automobile sta vivendo in Europa un periodo di alta congiuntura. Non credo che i dipendenti adesso sarebbero pronti per un grande sciopero. E in fondo a che scopo? La Ig Metall lo ha dimostrato con le trattative salariali: nell'industria automobilistica attualmente si può ottenere qualcosa anche senza ricorrere allo sciopero.
Ci sono economisti e giornali che sostengono la tesi secondo cui l'industria europea sarebbe sul viale del tramonto: fra non molto non ci sarebbe addirittura più nessuna produzione industriale. Lei è d'accordo?
È una tesi priva di fondamento, l'industria non è assolutamente sul viale del tramonto. Bastano un paio di dati dalla Svizzera per dimostrarlo: la nostra industria è altamente produttiva e molto competitiva a livello internazionale. Il 73 per cento delle esportazioni svizzere sono da imputare all'industria. E l'esportazione è in una fase di forte espansione: dal 1980 ad oggi la produzione esportata è quadruplicata. La Svizzera continua ad esportare verso Cina ed India più di quanto non importi da questi paesi. E il dato più importante è che dal 2005 l'industria è tornata a creare posti di lavoro in Svizzera. Nel 2005 e nel 2006 sono stati complessivamente oltre 35 mila.
Perché allora Unia continua a perdere iscritti nell'industria?
È un fatto che ci preoccupa. Ma stiamo affrontando il problema. Prossimamente presenteremo delle nuove tesi sul settore industriale che daranno risposte dal punto di vista sindacali a questioni di bruciante attualità come la deindustrializzazione, la riconversione ecologica, il capitalismo finanziario, cioè il capitalismo d'assalto dei vari squali della finanza.
In Unia c'è unità di vedute sul fatto che anche in futuro varrà la pena continuare a puntare sull'industria?
Anche in Unia c'è chi ritiene che l'industria abbia imboccato il viale del tramonto. Ma la maggioranza è d'accordo: Unia non può permettersi di lasciar perdere l'industria proprio adesso che con il surriscaldamento climatico e la conseguente necessità di una riconversione ecologica potremmo addirittura assistere ad una nuova fase di industrializzazione. Sarebbe l'inizio della fine per Unia.

Pubblicato il 

15.06.07

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