Non ci sono motivi per non concedere a Fereydun Rabbani la possibilità di restare in Svizzera, eppure la sua richiesta d’asilo è stata respinta in prima istanza. Il cittadino afghano risiede da anni in Ticino con moglie e figli, è ben integrato e avrebbe la possibilità di lavorare nel ristorante luganese di famiglia. I genitori e i fratelli di Fereydun, anch’essi in Svizzera, sono scappati dal regime talebano. Un racconto che dimostra l’assurdo delle politiche d’asilo elvetiche. Il richiedente asilo per avere successo deve dimostrarsi un narratore consumato. Chi cerca asilo in Svizzera deve raccontare più volte la propria storia di fronte a funzionari pubblici della Segreteria di Stato della migrazione (SEM). Per essere ritenuti credibili è necessario fornire dettagli delle persecuzioni subite. Occorre saper affrontare i fantasmi, mettersi a nudo, far entrare nel proprio intimo estranei a cui è stato affidato il compito di valutare la veridicità del racconto. Non è permesso avere dubbi rispetto a chi ti sta di fronte. Non sono concessi pudore, diffidenza, afasia, rimozione, resistenza. Tutti sentimenti più che comprensibili tra chi fugge da situazioni drammatiche. Nel film vincitore quest’anno alle Giornate di Soletta, Die Anhörung, la regista Lisa Gerig s’interroga e mette in discussione la parte fondamentale del processo di richiesta d’asilo: l’udienza (vedere box). La richiesta d’asilo di Fereydun Rabbani è stata respinta proprio perché l’uomo, emigrato anni fa in Iran per sfuggire alle persecuzioni talebane, non avrebbe saputo gestire al meglio proprio il momento dell’udienza. Fereydun non ha cercato di fare il furbo, semplicemente non è riuscito fin da subito a raccontare delle violenze e delle torture subite in Iran. Un elemento emerso soltanto in un secondo momento. Una volta scappato dall’Afghanistan, infatti, l’uomo si è procurato illegalmente un passaporto iraniano per cercare di potersi rifare una vita in Iran lontano dalle persecuzioni. Scoperto dalle autorità di Teheran, è stato accusato di reati mai commessi, incarcerato e ha vissuto un incubo ancora peggiore rispetto all’Afghanistan. Su questo punto Fereydun non ha dubbi: «Oggi farei diversamente, ma quando sono arrivato in Svizzera non ho avuto la forza di raccontare ciò che mi era successo. La paura era tanta». Come se non bastasse, nel momento in cui la moglie iraniana Parvaneh Sherifzadeh è arrivata in Svizzera, le autorità elvetiche hanno cominciato a dubitare addirittura dell’identità afghana di Fereydun: «Nel momento della sua udienza hanno riscontrato l’esistenza del mio passaporto iraniano e hanno cominciato a dubitare della mia identità». La risposta di Fereydun, sostenuto dai legali di Asylex, non si è fatta però attendere: «Per rimediare ho deciso di fornire il test DNA mio e quello di mio padre. Questa prova non è però stata accettata dalle autorità». Aresu Rabbani, sorella di Fereydun, attivista a favore delle donne afghane e apprendista levatrice, è stata la prima a contattarci: «La mia famiglia ne ha passate tante. Abbiamo patito molto e faticato per trovare una nostra dimensione in Ticino. Oggi che potremmo stare tranquilli viviamo ancora nell’incubo dell’espulsione di mio fratello». I Rabbani sono arrivati dall’Afghanistan da diversi anni in momenti diversi. La famiglia è ben integrata nel tessuto sociale ticinese ed è stimata da molte persone. Tutti hanno un permesso di soggiorno o la cittadinanza. Tutti hanno trovato una propria dimensione sociale e professionale. Jalil Rabbani, uno dei fratelli, ha ottenuto un diploma federale di cuoco, lavora in una casa di riposo e recentemente ha aperto un ristorante persiano a Lugano (Le mille e una notte). Fereydun sogna di lavorare in questo locale: «Con il permesso di soggiorno potrei finalmente dedicare tante delle mie energie al ristorante persiano che abbiamo aperto. Si tratta di un progetto a cui ho dato un grande contributo». SPERANDO IN UNA REVISIONE L’espulsione di Fereydun avrebbe conseguenze devastanti per tutta la famiglia. Per lui significherebbe ritornare nell’incubo, per la moglie e i figli essere strappati da un contesto sociale in cui hanno costruito legami forti e duraturi: «Nella mia vita non ho mai avuto stabilità, protezione e sicurezza. L’idea che anche i miei figli possano vivere le stesse cose è per me devastante». C’è un altro elemento nel racconto di Fereydun che colpisce, ovvero il suo attaccamento al Ticino: «Sto vivendo momenti molto difficili, ma devo dire che, al di là del mio statuto così precario e della paura di dover lasciare il paese, qui in Ticino ho trovato persone con un cuore grande, generose, persone per bene che danno valore alle altre culture. Questo fa davvero molto bene: aver trovato un contesto sociale tanto accogliente, aperto, ma allo stesso tempo un sistema che non crede nella mia buona fede». La prima richiesta d’asilo, purtroppo, è stata respinta. Le sole speranze sono ora affidate al ricorso oppure alla concessione di un permesso B per casi di rigore, come chiede anche una petizione appena lanciata (cliccare qui per firmare). Significherebbe riconoscere una sorta di punto di non ritorno nel processo di integrazione del richiedente asilo. Concedere l’asilo a Fereydun non è soltanto doveroso, ma risolverebbe tanti problemi e permetterebbe a tutti i Rabbani di vivere finalmente in pace, come meritano. |
IL FILM In scena il processo dell’audizione davanti alla SEM Un richiedente asilo deve essere in grado di raccontare la propria storia in maniera dettagliata. Nel film-saggio “Die Anhörung”, la regista Lisa Gerig si pone alcune domande fondamentali rispetto a questo aspetto della legge: essere buoni narratori aumenta le possibilità di ottenere accoglienza? È davvero un processo giusto quello operato dalle autorità elvetiche? Il film, premiato a Soletta a inizio 2024, è frutto di un lungo lavoro. Lisa Gerig ha svolto per anni attività di volontariato presso Solinetz Zürich, una delle realtà solidali più importanti che operano nell’ambito dell’accoglienza, e ha sviluppato un progetto complesso che le è costato anni di lavoro. Le audizioni della Segreteria di Stato per la migrazione (SEM) sono infatti inaccessibili. Lei è comunque riuscita a convincere quattro richiedenti asilo e collaboratori della SEM a rimettere in scena il processo dell’audizione. I richiedenti asilo hanno di nuovo raccontato le proprie storie, hanno rivissuto i propri traumi e, così facendo, hanno mostrato tutti i limiti di un processo che non può che apparire quantomeno problematico allo spettatore. Lisa Gerig ha avuto il merito e il coraggio di non limitarsi a raccontare le storie di persecuzione dei protagonisti, ma ha proposto ai protagonisti di ribaltare i propri ruoli. I collaboratori della SEM si sono trovati così a rispondere alle domande scomode dei richiedenti l’asilo. Le vittime hanno avuto la propria rivincita. Il film così facendo non si trasforma comunque in un processo ai collaboratori della SEM, ma riesce a far emergere i limiti dell’istituzione, le fragilità di un sistema che ha paura di accogliere. L’opera dimostra ancora una volta la capacità del cinema svizzero, da decenni a questa parte, di saper raccontare la realtà della migrazione meglio di qualsiasi altro media. |