L’incredibile dimenticanza nel caso Assange

Una cartella marcata Cia e l’ennesima coincidenza. Nei giorni scorsi il quotidiano El País ha portato alla ribalta un nuovo colpo di scena nel caso Assange. La rivelazione riguarda l’indagine su UC Global, l’azienda che sorvegliava l’ambasciata ecuadoregna a Londra dove aveva trovato rifugio il fondatore di Wikileaks.

 

Un’indagine giudiziaria a Madrid è in corso da quando un ex dipendente della ditta ha rivelato che l’incarico, in principio banali protocolli di sicurezza nella sede diplomatica, si fosse trasformato in spionaggio a tutto campo dell’australiano. Sostiene il whistleblower, che il direttore dell’azienda David Morales avrebbe concluso un accordo con la Cia in base al quale l’agenzia avrebbe ricevuto rapporti quotidiani su tutto quanto avvenisse nei locali dell’ambasciata. L’ex marine Morales ha sempre negato. Assange in quegli anni veniva bollato da amici e parenti come paranoico. Sosteneva infatti che qualcosa non tornasse nel comportamento del personale di UC Global. Si sentiva spiato, tanto da aver trasferito le riunioni più delicate nell’angusto gabinetto riservato alle donne. Assange si era fatto portare un macchinario per disturbare le registrazioni audio e con la sua allora avvocata, poi fidanzata e oggi moglie, comunicava con dei pizzini.

 

Paranoico? Aveva ragione, hanno dimostrato i materiali forniti dal whistleblower: migliaia di ore di registrazione e protocolli dettagliati su ogni movimento dell’ospite e di chiunque lo andasse a trovare. I visitatori venivano privati di telefoni e computer, che venivano smontati e fotografati. Al primo whistleblower ne sono seguiti altri, tutti oggi sotto protezione mentre il caso va avanti a Madrid. Erano già emersi foto e messaggi che sembravano corroborare le dichiarazioni degli ex dipendenti di UC Global.


Tuttavia finora mancava la prova regina della collaborazione con gli americani, prova che forse ora è arrivata, grazie ad una bizzarra coincidenza. Quando la polizia spagnola ha sequestrato telefoni e computer a Morales, nel copiarne il contenuto aveva infatti omesso di riprendere una cartella archiviata in una gerarchia di imbarazzante chiarezza: “operazioni e progetti” / “stati uniti” / “CIA” / “ambasciata”.

 

Davvero un’incredibile coincidenza, che la polizia spagnola abbia omesso di copiare quel materiale. La mole sarebbe importante, hanno raccontato i legali di Assange a El País: 551.616 documenti e 973 email. Aspettando che i periti del tribunale analizzino il tesoretto, resta la perplessità su quanto possa essere casuale l’errore, fatto che getta ombre inquietanti sulla polizia spagnola. In linea teorica, queste rivelazioni dovrebbero portare alla chiusura del caso: ad Assange non può essere garantito un “giusto processo”, se chi lo accusa ha avuto accesso alle sue conversazioni privilegiate con avvocati e consulenti, per tacere di visite mediche e ogni momento della sua quotidianità nella sede diplomatica.

 

Tuttavia, il caso Assange ha insegnato a chi lo segue che nulla vale. Non è bastato che il testimone chiave dell’accusa si rimangiasse le sue dichiarazioni, ammettendo di essere sul libro paga della CIA. Non è servito ascoltare in tribunale come nessun essere umano sia stato danneggiato dalle rivelazioni di Wikileaks sulle guerre americane, un fatto confermato dallo stesso Dipartimento di giustizia USA, che sulla questione ha a lungo indagato.

 

Il processo a Julian Assange entrerà negli archivi come la storia di una persecuzione, come racconta il libro dell’ex inviato speciale delle Nazioni Unite sulla tortura Nils Melzer, appena pubblicato in versione italiana da Fazi Editore.

Pubblicato il

07.06.2023 11:06
Serena Tinari
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