Risale a sole due settimane l’ultimo decesso in un cantiere ticinese. Quel maledetto venerdì, Giuseppe De Angelis, capomuratore di 52 anni con esperienza pluridecennale, è uscito di casa all’alba come sempre per andare a lavorare. Un fatale infortunio non gli permetterà di rientrare ad abbracciare la moglie e le due figlie.
Siamo andati al funerale decisi a non volerne scrivere la cronaca, nel rispetto dell’intimo dolore provocato dalla terribile perdita ai suoi cari. Lo abbiamo fatto perché volevamo ricordare a noi stessi quanto dolore si nasconda dietro quelle righe lette velocemente sul giornale che narrano di una vita spezzata al lavoro. In Italia è uso tra i giornalisti definirle “morti bianche”. Non è chiara l’origine, ma il linguista Giorgio De Rienzo spiegò sul Corriere della sera che «l’uso dell’aggettivo “bianco” allude all’assenza di una mano direttamente responsabile dell’incidente». Un’assenza di responsabilità che pare assolvere tutti, dando quasi per scontato o accettabile il rischio di morire al lavoro. Non può e non deve essere così. Pur ammettendo che il rischio zero assoluto non esista, rassegnarsi all’ineluttabilità di un infortunio letale o grave al lavoro, resta inaccettabile. Eppure avviene con una certa frequenza. Lunedì scorso, un agricoltore ticinese cinquantenne è deceduto cadendo dalla scala mentre stava sistemando il fieno. Un altro dolore immane colpisce tristemente i cari del defunto. Ogni caso è frutto di una serie di fattori, non per forza comuni tra loro. Non per questo si deve rinunciare a indignarsi per impedire che si ripeta. Abbiamo ripercorso i comunicati stampa della polizia cantonale degli ultimi dodici mesi relativi agli infortuni sul lavoro, per prassi limitati a quelli gravi. Ne abbiamo contati 28, in tutti i rami. In un anno, la media corrisponde a uno ogni due settimane. Visto il blocco delle attività non essenziali in primavera dovuto alla pandemia, la media reale sale. Nelle nude e ciniche cifre cantonali, si contano quattro decessi sul posto di lavoro, sei persone in pericolo di vita, quindici feritesi in modo serio, mentre tre persone hanno riportato ferite lievi. Val la pena sottolineare quanto dietro la dicitura “pericolo di vita” e “serie ferite”, si celino dei drammi umani personali e familiari, le cui ripercussioni si prolungano nel tempo. Alle complicanze dei periodi del recupero fisico (quando va a buon fine), la gravità dell’infortunio equivale sovente, purtroppo, ad una forzata esclusione dal mondo del lavoro, con tutte le difficoltà psicologiche e finanziarie che ne derivano.
La teoria e la pratica Poiché le morti bianche non esistono (e nemmeno gli infortuni gravi “bianchi”), perché queste avvengono con tale frequenza? Le statistiche degli infortuni professionali dicono che siano diminuite nel tempo. In Ticino, il cui tasso è sempre stato storicamente più elevato del resto del Paese, negli ultimi tre anni si è allineato alla media nazionale. «Lo scorso anno, nella costruzione sono stati registrati 174 infortuni contro 181 casi a livello nazionale su mille lavoratori. Quasi il 20%. È ancora troppo alto» spiega Luca Maspoli, istruttore dei corsi sulla sicurezza organizzati dalla Società svizzera impresari costruttori a Gordola. «Vuol dire che tra la quindicina dei presenti al mio corso, due o tre corsisti hanno un’alta probabilità d’infortunarsi nel corso dell’anno». Riassunte così le cifre, inquietano non poco. Eppure è notevole l’impegno formativo nella sicurezza. Lo attesta il fitto calendario dei corsi dati da Maspoli e colleghi, sia nella sede di Gordola o direttamente nelle aziende che ne fanno richiesta. Molta importanza viene data ai giovani, con tredici corsi obbligatori nel percorso scolastico d’apprendistato nell’edilizia principale e secondaria. Identici corsi vengono poi dati ai formatori d’apprendisti in azienda. «L’idea è concentrarsi sui giovani per far crescere la cultura della sicurezza sul posto di lavoro» spiega l’istruttore. Gli sforzi formativi si estendono a tutte le classi di maestranze già attive da tempo professionalmente, «con numerosi corsi ben frequentati» aggiunge Maspoli. La richiesta di formazione specifica è dunque alta, anche perché in taluni casi è obbligatoria per legge. Vi è però un ma che pesa come un macigno. «Interpellando i corsisti, si osserva una forte contrapposizione tra la teoria e la pratica. È teoricamente facile dire a un operaio di rifiutarsi di salire su quel ponteggio perché non a norma. Nella realtà l’operaio vi sale perché ha paura di perdere il posto».
I tempi dell’insicurezza Nei cantieri la fretta ha spesso la meglio sulla sicurezza. In primavera, Unia aveva pubblicato i risultati di un’inchiesta a cui avevano partecipato 12mila edili del Paese. Più della metà degli intervistati riteneva che la sicurezza fosse pregiudicata dai ritmi imposti dai tempi di consegna, ritenuti folli. Tempi puramente teorici concepiti al computer da committenti ansiosi, senza alcun riscontro nell’esecuzione pratica. Ad esprimere forte preoccupazione sono stati soprattutto i capomuratori, legalmente responsabili della sicurezza degli operai nei loro cantieri. La cronaca giudiziaria degli ultimi anni, lo ha dimostrato in più casi. Quando avviene un incidente grave in un cantiere, a pagarne le conseguenze penali è sovente il capocantiere. Sono rarissime le eccezioni in cui la magistratura estende l’inchiesta all’impresa o ai suoi vertici. Capocantiere che alla fine si trova nella disgraziata posizione di dover scegliere fra l’incudine della velocità e il martello della sicurezza. Le pressioni esercitate per rispettare i tempi di consegna, onde evitare le penali, non sono mai oggetto d’inchiesta.
E i controlli? Negli infortuni sul lavoro, la Suva esercita un ruolo chiave nel panorama elvetico. Per legge, la Suva insieme agli ispettorati del lavoro cantonali, è incaricata della sorveglianza dell’applicazione delle norme nei settori dove è attiva. In Ticino, gli ispettori della Suva chiamati a verificare l’applicazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione sono due ispettori. Un numero irrisorio rispetto ai cantieri aperti. Da una nostra breve inchiesta, senza alcuna pretesa scientifica, operai della costruzione attivi da decenni nei cantieri ticinesi affermano di aver visto una o due volte nella loro vita i controllori della Suva. Non sono pochi quelli che dicono di non averli mai visti. La Suva, con un patrimonio attivo di oltre 50 miliardi di franchi, investe molto nella prevenzione comunicativa tramite opuscoli o affissioni pubblicitarie. Celebri sono i suoi spot televisivi. «È indubbio che un’azione di controllo e di sanzione in caso di infrazione, possano costituire un deterrente per l’impresa che non rispetta i criteri di sicurezza» conclude Maspoli, specialista in sicurezza. «È il contesto a esser fatale» «Non si può morire in cantiere. È semplicemente inaccettabile» afferma Dario Cadenazzi, responsabile Unia Ticino del ramo edilizia. «Nei cantieri non esiste il rischio zero d’infortunarsi, questo è pacifico. Al contempo, bisogna fare tutto il possibile per evitare di mettere in pericolo l’operaio. Per farlo, è necessario avere le migliori condizioni per evitarlo. Attualmente non è il caso. Le pressioni sui termini di consegna, sono uno dei problemi principali. I committenti hanno un grande responsabilità su questo aspetto, in particolare quelli pubblici. Un’altra parte di responsabilità è delle imprese. La pressione sui prezzi porta le ditte alla logica di lavorare sottocosto, risparmiando in tutti i campi, sicurezza compresa. Nella vita di tutti i giorni dei cantieri, equivale ad esempio a far svolgere un lavoro a una persona quando invece dovrebbero farlo in due o a trascurare il giusto tempo per la messa in sicurezza. “Il tempo è denaro” può rivelarsi fatale». Come siamo messi a controlli? La Suva afferma di fare dei controlli in maniera sufficiente. Da parte mia posso solo riportare la sensazione percepita dai lavoratori, che lamentano un’assenza di controlli. Inoltre, gli ispettori della Suva fotografano la situazione istantanea del cantiere, non il processo lavorativo. Vedono lo stato dei ponteggi, se gli operai portano il casco e così via, ma non possono giudicare la sicurezza nella modalità del lavoro. Eppure sono proprio i processi lavorativi quelli più pericolosi, dove avvengono gli incidenti. Gli operai hanno la possibilità di opporsi a situazioni di pericolo? La Suva ha lanciato una campagna avente per slogan: “Stop in caso di pericolo”, invitando i lavoratori a fermarsi qualora le condizioni di sicurezza non fossero date. In un mondo teorico ideale, una campagna del genere non esisterebbe nemmeno, perché basterebbe il buonsenso. Ma la realtà è tutt’altra. Nel contesto ticinese dove la pressione sul mercato del lavoro è elevata, dove la paura di perdere il posto è concreta, l’operaio ci pensa non una, ma cento volte prima di rifiutarsi di svolgere un lavoro perché non c’è la sicurezza. Questo è evidente a tutti. Chi dice il contrario, sa di mentire. E qui si ripropone un problema di assenza di tutela dal licenziamento del lavoratore che denuncia il mancato rispetto delle norme di sicurezza. Una rivendicazione che il sindacato porta avanti da tempo, puntualmente ignorata dalla controparte. Siamo convinti che migliorare la sicurezza passi dal coinvolgimento attivo degli operai, adeguatamente tutelati contro le ritorsioni.
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