L’illusione della felicità

Per farti spendere e consumare le inventano tutte. Sepolto Halloween, importato dall’America, ecco partita, con anticipo di due mesi e con pronta pubblicità televisiva, la conquista del Natale. Con uno slogan stupefacente: preparati per tempo alla felicità. Per quella felicità c’è una correlazione economica implicita: disponibilità di reddito (per possibilità e voglia di spesa), soddisfazione d’acquisto, felicità. Pochi avvertiranno che c’è una sorta di contraddizione tra quella promessa di rinnovata felicità e la preoccupazione che si estende, persino con successi partitici, per il clima, l’ambiente degradato, i rifiuti, la plastica, lo spreco. Forse perché lì il dente duole.


Dice il dizionario:  “La felicità è lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri”. Senza troppa filosofia, è una delle possibili definizioni. Serve per sostenere che, allora, l’economia dev’essere nemica della felicità. Non è osservazione astrusa. L’economia, che divinizza la crescita, senza la quale si svuoterebbe, non può permettersi la felicità. Tanto più che il suo scopo principale non è quello di rispondere a dei bisogni essenziali, come poteva esserlo agli inizi, e nemmeno quello di soddisfare dei desideri, quanto piuttosto quello di crearne continuamente degli altri, in buona parte superflui. Sembrerà paradossale, ma solo un’economia che rende insoddisfatti e quindi tendenzialmente sempre infelici può pretendere di produrre (o di sovraprodurre, come capita oggi per un vecchio mito, l’automobile o per un nuovo mito, il telefonino), di crescere, di far girare senza interruzioni il suo motore.


Il discorso non può finire qui. Per il semplice motivo che l’economia, quella in cui siamo tutti intrappolati, ha trovato un’astuta fuga per la tangente. La quale appare come perfetta conclusione logica perché ci porta a credere che solo consumando possiamo renderci felici. O, come ci predicano preoccupate le nostre stesse autorità, solo continuando a far crescere il mitico Pil, il prodotto interno lordo, tasso di salute della nazione, creiamo le basi per la felicità che conta. Pil che di questi tempi sta vacillando e sono proprio i consumi delle economie domestiche che sembrano salvarlo.

 

Benedette quindi quelle ricorrenze che inducono a spendere. Ma per spendere ci vuole reddito spendibile e potere d’acquisto perlomeno mantenuto, adeguando salari e stipendi. Qui la logica svia per altre strade.
La domanda che rimane, quindi, non è tanto se i soldi rendano felici, quanto se consumare renda felici. Si rischia di scivolare nella retorica dell’anticonsumismo, è vero: facile criticare e lamentarsi (come per l’ambiente), ma poi, alla resa della coerenza, nessuno rinuncia a niente e tanto meno indietreggia. Anche perché non vuol sentirsi meno felice degli altri.

 

Non è un tema nuovo. Basterebbe citare uno dei padri dell’economia, il filosofo inglese Stuart Mill, vissuto nell’Ottocento, che sembra anticipare i tempi quando nel suo “Sulla libertà” (1853!) parla proprio di economia, libertà, felicità. «Meglio essere un Socrate insoddisfatto che un imbecille soddisfatto», conclude. Ovviamente per dirci che c’è qualcosa d’altro oltre il consumo materiale cui bisognerebbe tendere per essere felici. Ma dice anche, un poco più avanti: «Se la terra deve perdere le sue bellezze a causa dei danni provocati da una crescita illimitata della ricchezza, aggiungerei allora che è meglio rimanere dove stiamo prima di essere costretti a farlo per necessità». C’era già tutto. Dimenticato da noi, dalle cattedre di economia, dai politici.

Pubblicato il

07.11.2019 10:07
Silvano Toppi