Che ambizioni democratiche può avere un paese in cui una persona su tre ha serie difficoltà a leggere, far di conto o trovare soluzioni a un problema? L’indagine PIAAC dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), a dicembre, ha pubblicato alcuni dati che, qualora ve ne fosse l’interesse, potrebbero farci rimettere in discussione il grado di progresso che riteniamo di avere raggiunto: in Svizzera, oltre 1,6 milioni di persone tra 16 e 65 anni hanno scarse competenze in lettura, calcolo o risoluzione di problemi quotidiani. Oltre uno svizzero su cinque riesce a comprendere solo testi brevi che non richiedano un’interpretazione. Anche se sono l’età e la formazione gli elementi più determinanti (il 30% delle persone tra 56 e 65 anni ha difficoltà a leggere, così come quasi la metà di chi non ha conseguito una formazione post-obbligatoria), i numeri dicono molto anche sui giovani: secondo lo studio OCSE è il 10% dei ragazzi tra 16 e 25 anni ad avere difficoltà in lettura, mentre secondo l’ultimo test PISA del 2022 – che analizza le capacità dei quindicenni scolarizzati – la percentuale di ragazzi che, in Ticino, non ha le competenze minime in lettura per affrontare le sfide quotidiane è del 19%. Un quindicenne su cinque. LA SCUOLA SENZA QUALITÀ «È una cifra gigantesca, per me quasi inaccettabile – ci dice Tommaso Soldini, scrittore e docente da 20 anni –. I cambiamenti li rilevo soprattutto nell’attenzione; per esempio, nella scrittura: negli ultimi anni è come se ci fosse stato un indebolimento, un’attenzione sempre minore per i dettagli di forma. Sempre di più incontro studenti che non conoscono più la sillabazione delle parole. È come se si stesse frammentando l’idea (portante) che la forma è contenuto, e quindi che rispettare la forma porti con sé un valore. Questo stesso atteggiamento lo si rileva anche nella capacità di lettura, anch’essa una forma di riconoscimento: da una parte del contenuto ma dall’altra anche – ed è la cosa più importante – del come si dice quello che si vuole dire. Maggiore è la capacità di riconoscere una forma stilisticamente compiuta, maggiore è la capacità di rendere complesso il proprio pensiero, e dunque la capacità di esprimerlo. Fino a qualche tempo fa pensavo che l’ordine scolastico più in difficoltà fosse quello delle scuole medie, ma comincio a pensare che invece il tema vada affrontato alla scuola elementare. È lì che si gettano le basi di quello che sarà il nostro approccio alla realtà». Nel 2023, il Ticino ha impiegato nell’educazione il 23% della sua spesa pubblica totale: non tra i Cantoni più virtuosi, ma nemmeno tra i peggiori. Gli interrogativi potrebbero dunque sorgere, a questo punto, piuttosto sull’approccio della scuola sempre più orientato al mondo del lavoro: «Questo è il grande bivio che per me ha determinato buona parte dei problemi. Nel momento in cui la scuola ha cominciato ad essere vista come preparatoria per il mondo del lavoro è stata indebolita di una parte essenziale della sua forza: quella di generare persone che la società la riformano, non persone che la società la nutrono con la forza lavoro. La scuola, per sua natura, deve creare e formare persone migliori di chi le ha educate. Se invece insegna un mestiere, le persone restano sempre un po’ al di sotto di chi glielo ha insegnato, bloccando il progresso». Un progresso che rischia di venire strozzato anche dal fatto che un giovane su cinque uscito dalla scuola dell’obbligo non sappia affrontare un testo semplice, con il rischio che lo stesso giovane sia meno equipaggiato per partecipare alla vita politica del paese e che sia più facilmente manipolabile. «L’assunto “meno so leggere, quindi meno so comprendere la complessità, meno sono libero” mi sembra difficilmente discutibile. Veniamo da una storia scolastica in cui chiunque insegnasse era anzitutto una persona colta. Secondo me, questo sta venendo meno. Ora, il docente di geografia non è obbligato a percepirsi anche come docente d’italiano, sia quando si esprime sia quando corregge. Si sta allentando il valore della capacità espressiva, che è specchio della capacità di ragionamento. A ciò si aggiunge, poi, il gigantesco discorso dei social media e della tecnologia, che genera una radicale trasformazione nella sistemazione delle priorità nelle nostre menti: gli allievi, perlopiù, mi chiedono cosa io pensi di varie questioni internazionali, ma quasi mai mi chiedono cosa io pensi del sistema sanitario ticinese. Nel vecchio sistema scolastico, alle Elementari ti insegnavano quartiere, paese, città, poi Svizzera, poi Europa, poi mondo. Questo raccontava uno stare nel mondo legato all’esperienza fisica e aiutava a capire le tue priorità in quanto cittadino. Penso che fosse un approccio molto logico e naturale». A DETERMINARE IL FUTURO DEI GIOVANI È LA CLASSE SOCIALE Può allora essere stato proprio il disinteresse per le questioni a noi fisicamente più vicine ad averci fatto trascurare il fatto che tra i giovani, nel 2025, l’elemento che determina di più i loro risultati scolastici è l’estrazione sociale? Sempre secondo il test PISA infatti, tra tutte le variabili, quella ad avere un impatto maggiore sui risultati non è il genere, non è lo statuto migratorio o la lingua parlata a casa, ma è la condizione socioeconomica (il grado di istruzione dei genitori, la loro occupazione professionale più qualificata e la loro disponibilità di beni, quindi di denaro). E l’impatto della condizione sociale, in Svizzera, secondo lo studio non fa altro che aumentare. «La scuola è il primo, grandissimo e più importante freno alla formazione di discriminazione sociale. La scuola deve, fondamentalmente, fare questo lavoro. Quella che invece sta trionfando è l’idea che solo i ricchi sono vincitori, mentre tutti gli altri non lo sono per colpa loro. Questa è l’idea che, sempre più, anche la scuola sta smettendo di combattere e questi sono i valori che hanno interiorizzato anche i giovani, e che faccio sempre più fatica a combattere. L’allontanamento della scuola dalla sua funzione di costruzione di libertà di pensiero porta al mantenimento dello status quo: chi è ricco rimane ricco, chi è povero rimane povero. Se l’educazione rinuncia all’abitudine al pensiero si genera ignoranza strutturale, che indebolisce le persone e la loro libertà e che, quindi, indebolisce la democrazia stessa». |