Oltreconfine

Lunedì mattina, 20 aprile 2020. Già dal primo mattino, ai valichi di confine tra l'Italia e il Ticino, si assiste alle prime code di frontalieri diretti in Svizzera. Per parte di loro, si ricomincia. Al momento del blocco totale, i lavoratori italiani che si muovevano ancora verso il Ticino erano circa 11.000, di cui 4.000 impiegati nel settore socio-sanitario. Con la prima apertura di Pasquetta, con l'allentamento nei settori del giardinaggio e dell'edilizia individuale, si è arrivati a circa 13.000 passaggi quotidiani. Da oggi, le cifre dovrebbero aumentare di molto, e superare le 20.000 persone.

 

L'apertura ticinese desta grossa preoccupazione oltre confine dove i sindacati hanno reagito con un comunicato molto critico. Per sapere quale sia il sentimento del fronte sindacale in Italia abbiamo intervistato Giuseppe Augurusa, responsabile nazionale per i frontalieri della Cgil.

 

Giuseppe Augurusa, la vostra presa di posizione verso l'apertura parziale in Ticino è stata molto dura. Come mai?

 

La nostra preoccupazione non è certo per il fatto che ripartano le attività, ma è basata dai dati della curva epidemica, che in Ticino sono peggiori rispetto all'Italia e ad alcune aree della Lombardia. Questo soprattutto in un contesto in cui i dati più recenti sembrano indicare una leggera diminuzione della curva proprio in territorio lombardo. Inoltre, l'apertura riguarderà circa l'80% dei cantieri, ciò che per il settore edile è più di una semplice apertura parziale. Questa situazione contraddice le indicazioni sanitarie e anche le recenti raccomandazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che, proprio poco prima della decisione di Bellinzona, aveva raccomandato che le riaperture dovessero tenere in conto delle fasi epidemiologiche. Questo modo d'agire frettoloso rischia quindi di frenare la diminuzione del contagio.

 

Dal suo osservatorio come spiega questa decisione ticinese?

 

Da un lato c'è sicuramente la questione dell'autonomia da Berna del Canton Ticino. Mi riferisco a quella scelta quasi imposta e che anche i nostri colleghi dei sindacati svizzeri hanno dovuto subire e accettare. L'alternativa, infatti, rischiava di essere un'apertura pressoché totale. Dall'altro vi è sicuramente una pressione degli ambienti economici e del padronato. Tra attività economiche e salute pubblica si è spinto piuttosto verso la prima possibilità. Le lavoratrici e i lavoratori devono così scegliere tra la propria salute e il rischio di perdere il proprio posto di lavoro, in un contesto come quello svizzero in cui ci sono limitate misure di tutela contro i licenziamenti.

 

Una sorta di ricatto, insomma, ancora più difficile da subire per i frontalieri che vivono in un territorio in cui la chiusura è ancora reale.

 

Si, in Lombardia i criteri per uscire di casa sono ancora molto severi. Si ipotizza una parziale apertura per il 4 maggio, ma tutto deve ancora essere definito. Alcuni sindaci pedemontani hanno addirittura ipotizzato la misura di chiudere le uscite dai Comuni. Un atto illegittimo, ma che dice la paura che c'è in queste aree a ridosso del confine, poco toccate dal virus rispetto ad altre regioni lombarde e al Ticino stesso. Un frontaliere deve quindi scegliere se rispettare la propria autorità sanitaria, il sindaco che non fa uscire di casa, o il padrone che può licenziare se non ci si presenta sul posto di lavoro. Una scelta indegna.

 

Non ci sarebbe dovuto essere un maggior coordinamento politico tra Lombardia e Ticino?

 

Certo che sì. Stiamo parlando di un'unica area economica con in mezzo una frontiera che evidentemente non è presa in considerazione dal virus. Ci saremmo aspettati che ci fossero quindi delle forme di coordinamento e che il Ticino, senza naturalmente perdere la sua sovranità, tenesse conto di quanto succede il Lombardia. Quello che è emerso è che l'unica forma di coordinamento con le istituzioni regionali lombarde e piemontesi sembra essere quella di decidere se e quali valichi si aprono e si chiudono. Mi pare un po' poco.

 

Pubblicato il 

20.04.20
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