La storia economica ha la memoria corta. Ed è così che si persevera nell’errore. Alle volte l’attualità internazionale giova a ricordarcelo.
 
Ci si appropria delle cosiddette “idee-forza” forgiate altrove, nei pensatoi  universitari o nei governi di stati ed economie imperanti. Subito annusate e importate, si tenta di applicarle anche nella nostra piccola realtà come ricette dell’ultimo minuto, autorevoli e indiscutibili. Esemplifichiamo.
 
Negli anni Ottanta, in particolar modo in Ticino, di fronte ai soliti irrisolti problemi di crescita economica, di debolezza strutturale di molti settori, di bilanci statali sempre squilibrati, il Consiglio di Stato (Claudio Generali) puntò sull’idea forza allora circolante, proveniente dall’università di Chicago e dagli Stati Uniti (come perlopiù capita), della taumaturgica “supply-side”. La si cantava in inglese persino nell’aula granconsiliare. Che voleva dire, in parole nostre, enfatizzare il ruolo, la parte (side) dell’offerta (supply) nello stimolare la crescita economica. In soldoni politici: solo una minore tassazione sui profitti, sulla ricchezza o sui patrimoni stimolerà la crescita; lieviteranno allora anche le entrate fiscali, nonostante la diminuzione delle quote, e aumenterà pure  l’offerta di lavoro. La storia che ne è seguita ci ha quasi riportati al punto di partenza: più uscite che entrate fiscali, altro indebitamento, pochi investimenti qualificanti, scarso valore aggiunto, maggior offerta di lavoro ma sempre meno retribuito (frontalieri), salari sempre inferiori del 18 per cento rispetto alla media nazionale, minor reddito disponibile (debolezza della domanda), diseguaglianze settoriali e regionali, tasso di povertà elevato, ricorso all’assistenza sociale.
 
Quella politica economica, a conti fatti fallimentare, anche là dove era stata inventata (sia in fatto di reddito salariale medio sempre decrescente negli anni, sia in fatto di forti diseguaglianze di reddito, di povertà esplosiva di  fronte a una esasperante concentrazione della ricchezza) è stata pervicacemente continuata e accentuata, soprattutto negli ultimi quattro anni, con un’altra teoria, identica, intensamente applicata, definita, con un’altra espressione inglese più fantasiosa: “trikle down effect”, quanto a dire, in parole nostre,  “effetto dello sgocciolamento dall’alto verso il basso”. In concreto: i benefici economici elargiti ai ceti abbienti, ai ricchi, alle imprese (quindi sempre in termini di minore imposizione fiscale o di deregolamentazione) favoriscono l’intera società, comprese la classe media o le fasce di popolazione marginate o disagiate. Proprio come fa un ruscello che scorrendo  dall’alto verso il basso inonda tutto l’alveo.
 

Nello spazio di pochi giorni sono arrivate due decise e autorevoli smentite di questa teoria, tenacemente applicata. E qui l’attualità ridesta la storia. La prima nientemeno che da papa Francesco («quella dello sgocciolamento è una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante»). La seconda dal neoeletto presidente degli Stati Uniti Joe Biden, presentando un’iniezione superlativa di dollari per favorire la domanda, non l’offerta («abbiamo ormai constatato più e più volte che queste ricadute della ricchezza non funzionano. Dobbiamo cominciare a cambiare paradigma. È ormai tempo di costruire un’economia che cresca invece dal basso verso l’alto»).
Due contestazioni che potrebbero fare un’“idea-forza” iniettabile anche nella credenza politica delle nostre parti?

Pubblicato il 

17.03.21
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