L'eredità di un uomo, non di un santo

L’8 giugno scorso Nelson Mandela è stato ricoverato d’urgenza in un ospedale di Pretoria per i problemi di cuore e polmoni conseguenza dei suoi 27 anni di prigione. Da dicembre è stata la quinta volta e, probabilmente, anche l’ultima. Le sue condizioni erano e restano critiche. Forse Mandela è ormai tenuto in vita solo grazie alle apparecchiature mediche. Per dare tempo a lui di morire, chissà, il 18 luglio, una data simbolica: lo stesso giorno del 1918 in cui, 95 anni or sono, nacque nel villaggio di Qunu, provincia dell’Eastern Cape; e soprattutto dare tempo al paese – il governo del presidente Jacob Zuma, l’African National Congress (il partito-Stato), la maggioranza nera e anche, paradosso solo apparente, la minoranza bianca – per prepararsi alla perdita definitiva del padre della “Rainbow Nation”.

 

Perché se è vero che Mandela è uscito dalla scena politica attiva dal 1999, al termine dei suoi primi e ultimi 5 anni di presidenza, e dalla scena pubblica ufficiale nel 2004, resta un simbolo poderoso – anzi il simbolo vivente – di un’epopea tragica e grandiosa verso la liberazione e di quello che il Sudafrica democratico e a-razziale prometteva di essere dopo il 1994. Un lungo addio che ora sembra essere arrivato alla fine.
Mandela è la personalità più carismatica del XX secolo sudafricano e una delle più carismatiche nel mondo. Una sorta di coscienza dell’umanità, un simbolo capace di smuovere i cuori e le menti. Nell’immaginario popolare è quanto di più vicino ci sia, prima ancora che a un eroe, a un santo vivente. Mandela è l’uomo che ha guidato la lotta contro quella oscenità nazi che fu il sistema di apartheid nel Sudafrica bianco, poi, dopo la sua liberazione dal carcere l’11 febbraio 1990, il protagonista assoluto del “miracolo politico” della riconciliazione razziale e della transizione pacifica in un mondo in cui si annunciavano sanguinose guerre e pulizie a sfondo etnico e religioso.


Un’immagine e una storia favolose e per di più in buona sostanza vere. Perché è verissimo che il Sudafrica di oggi è straordinariamente diverso da quell’orrore politico-economico che Mandela si trovò di fronte nel 1990 quando si sedette a negoziare con l’ultimo presidente del potere bianco, Frederik Willem de Klerk. Il Sudafrica di oggi è una democrazia liberale, con un governo a-razziale, una classe media nera dinamica, un sistema mediatico vivace, libertà politiche consolidate e un’economia in espansione – la maggiore d’Africa anche se colpita dalla crisi globale – che l’ha spinto di diritto fra i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), le economie emergenti che aspirano al ruolo di global players.


Va a Mandela il merito di aver fatto della “Rainbow Nation” (la Nazione Arcobaleno) una democrazia liberale salvando il paese da una incombente guerra civile e la minoranza bianca – 4.6 milioni in tutto su 50, meno del 10% – o dal suicidio di massa o dalla fuga. Anche se il costo, per il “nuovo” Sudafrica e la sua immensa maggioranza nera, è stato pesantissimo: la garanzia che le sproporzionate (o meglio scandalose) ricchezza e potere della minoranza bianca non sarebbero state toccate. Quasi 20 anni dopo il primo voto democratico del 1994 e la memorabile elezione di Mandela, oggi, in generale, i bianchi sudafricani non sono mai stati così ricchi, così tranquilli, così liberi; la maggioranza degli amministratori delegati e dei top manager è tuttora bianca e solo il 4% delle aziende quotate nella Borsa di Johannesburg è sotto il controllo di neri.
Ecco perché anche i bianchi guardano con apprensione al dopo-Mandela. Hanno paura che le contraddizioni clamorose e i debiti pendenti di questi primi 20 anni di governo Anc facciano saltare il banco.


Sarebbe bello, in morte di Mandela, poterlo celebrare solo per la sua straordinaria statura di uomo che ha sfidato e sconfitto il sistema di apartheid e di leader della “miracolosa” transizione democratica e riconciliazione razziale, attribuendo gli errori e gli orrori della condizione sociale ed economica del “nuovo” Sudafrica solo ai suoi pessimi successori passati (Thabo Mbeki), odierni (Jacob Zuma) e futuri (Cyril Ramaphosa, ex leader prestigioso del sindacato dei minatori divenuto nel frattempo businessman miliardario e indicato come possibile presidente del dopo-Zuma).


In realtà fu Mandela che nei negoziati con De Klerk e poi durante la sua presidenza scelse, subì, accettò, praticò una politica economica “market-friendly”, amica dei mercati ma disastrosa e iniqua per la grande maggioranza povera dei neri sudafricani. La nazionalizzazione delle banche, miniere e industrie monopolistiche promessa e scritta nella Freedom Charter del 1955, il documento fondativo dell’Anc, è svanita nel nulla.


Il risultato è che il “nuovo” Sudafrica rimane uno dei paesi più diseguali e iniqui del mondo quanto a distribuzione della ricchezza e, pur essendo un paese arcobaleno e a-razziale, la razza è ancora il fattore decisivo della diseguaglianza-iniquità, nonostante la politica del “black empowerment” avviata dal governo Anc: dal 1994 il numero dei sudafricani (neri) costretti a vivere con meno di un dollaro al giorno è raddoppiato, così come il numero dei sudafricani miliardari (molti bianchi e qualche nero), l’aspettativa di vita è diminuita di 13 anni, la disoccupazione fra i neri (almeno fino al 2006) è passata da 2 a 4 milioni.
Redistribuzione della terra – per il 70% ancora nelle mani di bianchi –, politica della casa e delle scuole, salute, acqua e corrente elettrica, risanamento delle township, salari? O non è stato fatto niente o è stato fatto troppo poco, mentre il paese si dibatte nella corruzione sfacciata e nella violenza diffusa (una sorta di primitiva redistribuzione) le compagnie minerarie e la finanza fanno festa.


Forse è troppo crudo il giudizio di Naomi Klein che nel suo illuminante Shock Economy parla di «svolta decisiva del Sudafrica verso il thatcherismo». Forse non si poteva fare altro, pena la guerra civile e il collasso economico. Ma nessuno può dire con certezza che cosa sarebbe potuto essere il “nuovo” Sudafrica (e non solo) se allora “l’invictus” Mandela e l’Anc, forti del prestigio immenso nell’ora della vittoria e della gloria, avessero resistito e respinto l’imposizione dell’ortodossia liberista e si fossero azzardati a spingere “il lungo cammino verso la libertà” – l’autobiografia di Mandela – oltre la soglia della conquista del governo e dello Stato nel mare incognito della riappropriazione e redistribuzione delle risorse e delle ricchezze illegittimamente confiscate dalla minoranza bianca.
Si vedrà che cosa sarà la “Rainbow Nation” del dopo-Mandela e saranno gli storici a rispondere sul ruolo complessivo che lui ha avuto nella storia del Sudafrica, dell’Africa e dell’umanità. Comunque un grande del ’900, un gigante, anche se un uomo e non un santo.

 

Pubblicato il

03.07.2013 23:34
Maurizio Matteuzzi