I modi per essere costretti a partire (o a non più tornare) sono tanti, oltre beninteso alla disoccupazione e alla povertà. Per non sconfinare in astrazioni parlerò della mia regione: la Carnia, l’area alpina del Friuli, che ha perso in meno di 150 anni quasi due terzi della sua popolazione. Intanto vengono costretti a partire gli eretici e i sovversivi: chi, allora, si converte al luteranesimo e rischia di finire nelle galere veneziane o peggio; chi, molto più tardi, sposa l’austromarxismo e deve scegliere, all’avvento del fascismo, se finire su un’isola sperduta nel mediterraneo o rifugiarsi in Francia; chi combatte il nazi-fascismo con le armi e “stenta” poi a trovare lavoro e finisce in Belgio o in Svizzera. Ma non erano spinti fuori solo gli eretici e i sovversivi. È vero che il lavoro, in quella che allora era estrema regione prima della “cortina di ferro” dove si investiva il meno possibile (e che poteva diventare, ancora una volta, un campo di battaglia “privilegiato”), scarseggia, ma c’è disoccupato e disoccupato. Il lavoro lo si trova se si hanno le raccomandazioni giuste (o non c’è il veto) del parroco e del segretario della Dc. Ma anche per chi lo trova è una sorta di moneta di scambio: le condizioni non sono il massimo e il rispetto del contratto non deve diventare una rivendicazione. Il lavoro ottenuto è un favore da ricompensare con accettazione delle condizioni “elargite” in gratitudine e fedeltà. La raccomandazione non viene negata se un “sovversivo” la chiede. Ma assume il valore di un rinsavimento e/o di un’abiura. C’è chi ci prova, ma è la seconda parte che li mette in crisi: il rapporto di sudditanza che si pretende instaurare, di aggiramento di ogni regola, il paternalismo diffuso che assieme producono un sentimento di rifiuto e di sfida. * * * C’è quindi anche chi dell’emigrazione ne ha fatto e ne fa un rifiuto. Nel 1974 questo mi era chiarissimo e scrivevo che occorreva chiarire: «… per tutti una volta per tutte che sì l’emigrazione è necessità / costrizione ma è anche risposta fuga rivolta volontà di cambiare Fuga dal vecchio e nuovo feudalesimo Rivolta a condizioni inaccettabili Ricerca di rapporti diversi Certo fuga individuale rivolta individuale risposta individuale ricerca individuale Ma se da noi è fatto di massa in parte è già coscienza collettiva». Erano gli anni in cui, a ogni ricorrente elezione politica, per dare speranza e motivare gli emigrati italiani a partecipare al voto, lo slogan del Pci era: “Tornare per votare / Votare per tornare”. Come dire: non scoraggiatevi, è possibile cambiare l’Italia, grazie a noi e anche grazie a voi. Ed effettivamente a votare tornavano in tanti. Anch’io. Ma non ero il solo a chiedersi: vorrebbero tornare davvero? Erano anni di intensa militanza, la spinta al cambiamento era forte, l’obiettivo sembrava vicino e tanti pensavano che il faticoso, ma anche esaltante, viaggio valeva la candela. Certamente il cambiamento lo sentivano possibile e necessario, ma forse sempre in più, passando il tempo e le elezioni, nascendo figli e nipoti, pensavano oramai sempre di più generale e in astratto: ad un cambiamento destinato a chi era rimasto. Chi resisteva di più all’idea del ritorno erano le donne. Non solo quelle che provenivano dalle regioni del Mezzogiorno. Tornare per loro avrebbe significato anche tornare indietro. Era oramai una sorta di incubo l’idea di trovarsi reinserite nella struttura familistica e patriarcale che avevano lasciato. Qui lavorando e guadagnando avevano potuto conoscere livelli inimmaginabili e insperati di autonomia. Non serviva dire l’Italia sta cambiando, bastavano le sempre più fugaci puntate estive a scoraggiare quel progetto che sempre più s’assottigliava. Ci sono città del Sud, San Giovanni in Fiore ad esempio, piene di scheletri di case che sono andate poco più in là della gabbia in cemento armato, con gli spuntoni dei ferri di ripresa che svettano dai solai per un successivo piano che, probabilmente, non verrà mai realizzato, e che, intanto, stanno arrugginendo. Un progetto, tanti progetti, accantonati, mutati e di questo cambiamento quegli scheletri di case sono la spia più spettrale e significativa. Da anni sempre meno pensionati tornano. Aumentano ogni anno chi sceglie di restare qui. O, come dicono alcune ricerche, fanno intanto i pendolari, tra parenti giù e figli qui, due mesi per parte, ma non mollano il permesso “C”. Appunto i figli, e i nipoti, e le reti di relazione che si sono create. I servizi che qui (ancora) funzionano. Nonostante le cose che certamente giù cambiano, ma non necessariamente in meglio… Hanno conosciuto le varie iniziative antistranieri. Ma in fin dei conti Schwarzenbach e i suoi successivi emuli sono sempre stati sconfitti. C’è quindi anche un sentimento di riconoscenza verso gli svizzeri che hanno saputo riconoscere la loro utilità e il loro valore. Che quando serviva hanno saputo scegliere. Ma ricordo il Primo maggio di alcuni anni fa, a Olten, dove ero stato invitato come relatore. Cammino in corteo vicino al compagno Domenico De Maria, che non vedevo da tempo. Attraversiamo il centro chiacchierando distesi e contenti: la giornata è bella, il corteo lungo. Dice: «Quando sono arrivato qui, quasi quarant’anni fa, al primo maggio eravamo in quattro gatti: qualche postino, qualche ferroviere e noi immigrati, ora siamo tantissimi. Questa era una cittadina insignificante, ora vedi – mostrandomi il palazzo di una banca, un ponte, una scuola, un grande fabbricato residenziale – questo l’ho fatto io, questo l’ho fatto io, questo l’ho fatto io...». Ovvio che intendeva noi, gli immigrati. Gli chiedo: «Sei diventato svizzero?» Risponde: «Ma ti rendi conto: dopo tutto quello che ho fatto, che ho costruito, per essere cittadino di questa città che ho visto crescere, che ho fatto crescere, dovrei anche pagare!». Allora al comizio ho proposto che: come ci sono e si danno le lauree ad honorem nelle università, si dovrebbe trovare il modo per dare, nelle città e anche nei piccoli comuni dove culturalmente e politicamente è possibile, la “cittadinanza ad honorem” a chi quelle città e quei comuni ha grandemente contribuito a costruire. Per non parlare delle autostrade, dighe, ferrovie, aeroporti. L’applauso c’è stato, anche vasto e commosso. Ma per ora non si è andati molto oltre. Non è difficile pensare che un’iniziativa del genere, ovviamente non invece e al posto del diritto alla cittadinanza, certamente facilitata o automatica, per chi è nato qui, contribuirebbe a snebbiare molte coscienze, a inserire i costruttori, i diversi, quelli venuti dal sud, nell’immaginario collettivo di questo paese, a farli sentire ancora di più a casa, a farli sentire, percepire, da tutti, di casa. * * * Ma oggi? Ha ancora uno spazio possibile un’idea come questa? O sta per entrare nel novero delle utopie insensate? Come hanno vissuto gli immigrati, qui da una o più generazioni, la recentissima elezione del Consiglio federale? Non sembra di assistere ad una vittoria postuma di Schwarzenbach? La Svizzera sta preparandosi ad assomigliare al suo modello peggiore?

Pubblicato il 

19.12.03

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