Sarà sufficiente la cinica doppiezza alla bifronte Giorgia Meloni per incassare i benefit della vittoria di Trump? Messa preventivamente in soffitta la compromettente foto del bacio schioccatole sulla fronte da Joe Biden in tempi non sospetti, la premier della Garbatella si era portata avanti sospettando che dalle urne americane potesse uscire premiato “the Donald”: essendo ancora incerto l’esito del voto, però, invece dell’endorsement diretto al settantottenne miliardario aveva optato per una tenera carezza a un altro multimiliardario, il giovane stellare Elon Musk da cui si era fatta consegnare il Global Citizen Award assegnatole dal Consiglio Atlantico sponsorizzato da banchieri, finanzieri e costruttori di armi. Musk il “supergenio”, che ha investito 119 milioni di dollari nella campagna elettorale di Trump e ne ha ricavato in un solo giorno 13 miliardi grazie al balzo in borsa di Tesla.

 

Il problema con Trump, con cui Giorgia Meloni condivide Dio Patria e Famiglia, nonché l’idea che chi vince prende tutto e non fa prigionieri, nasce dal fatto che nel mirino dell’America futura non c’è solo la Cina ma anche l’Europa, perché il vincitore delle elezioni Usa vuole restituire l’antica potenza al suo paese uscito sconfitto nella guerra della globalizzazione e sogna il capitalismo – meglio, il finanz-capitalismo per ricorrere a un neologismo di Luciano Gallino – in un paese solo. Come? Con un’impennata di sovranismo e protezionismo che si traducono in dazi pesanti, e l’Italia, oggi in mano a Giorgia Meloni che non riesce a far quadrare i conti nemmeno con il pallottoliere, deve una parte significativa del PIL alle esportazioni negli Stati Uniti. Che ne sarà dei prosciutti di Parma, delle forme di parmigiano, delle bottiglie di Barolo, delle scarpe griffate? Trump, per giunta, vuole scaricare i costi della NATO e delle guerre sul Vecchio continente da cui pretende, così come la NATO stessa, più spesa militare, una spesa che già oggi sottrae risorse alla sanità, alla scuola, ai contratti e che a lungo andare potrebbe creare qualche problemino al governo italiano. Potrebbe essere addirittura raccolto il grido di Maurizio Landini che ha fatto saltare sulla sedia le destre di ogni colore: “Serve una rivolta sociale” contro le politiche economiche sciagurate e classiste del governo. E poi c’è un problema più generale che riguarda il doppiogiochismo meloniano: come la metterà con la sua amica del cuore Von der Leyen, la sua sponsor a Bruxelles, che vede come il fumo negli occhi i dazi trumpiani? Più facile invece rafforzare i rapporti con il socio sovranista Orban. Riuscirà Meloni a salvare capra e cavoli, o forse sogna di strappare sconti sui dazi dal nuovo amico, the Donald? In fondo i due hanno molto in comune, a partire dalla capacità di diffondere e strumentalizzare la paura (a partire dall’individuazione dei nemici, i migranti) per attaccare lo stato di diritto e plagiare i ceti più fragili.

 

Chi non ha remore né doppiezze da difendere e brinda alla vittoria di Trump con parole inequivocabili, cioè lodi sperticate, è il vicepremier Salvini che aggiunge perfidamente rivolto tanto a Meloni quanto all’altro vicepremier, Tajani, “sono tra i pochi a non aver nascosto la mia preferenza per Trump. Altri nel centrodestra la pensavano in modo diverso”. Il leader leghista prende la palla al balzo per invocare la fine del costoso sostegno militare all’Ucraina (la bandiera del no alla guerra, in Italia come negli Usa, non è stata forse ammainata da tempo da tanta sinistra?), urtando la sensibilità atlantica di una Giorgia Meloni costretta invece a maggior cautela nell’invio delle congratulazioni, prima telefoniche e poi attraverso X, il social di Musk, al presidente eletto; che comunque rassicura con una sviolinata interessata per ribadire che “Italia e USA sono nazioni sorelle legate da un’alleanza incrollabile”. Fratelli d’Italia e Sorelle d’America. Anche Tajani, berlusconiano in Italia e popolare in Europa, pesa le parole per evitare l’esplodere di contraddizioni in casa propria.

 

Il trionfo di Trump agita le acque anche nel campo dell’opposizione al governo Meloni. La segretaria del PD Elly Schlein, da subito schierata con Kamala Harris così come era schierata con i democratici al tempo di Obama per il quale aveva fatto campagna elettorale, denuncia le conseguenze disastrose della vittoria repubblicana, per gli americani, per l’Italia, per l’Europa; conseguenze che spingono l’UE a tentare un’accelerazione sul riarmo per far fronte a un prevedibile disimpegno americano a partire dalla guerra in Ucraina: un po’ di autonomia dagli USA fondata non sulla ricostruzione del modello sociale europeo ma su missili e cannoni. Una sirena al cui canto è sensibile non solo il ministro della difesa Crosetto ma anche una buona parte del Partito democratico. E nelle ore in cui negli USA si votava, Elly Schlein incontrava Supermario Draghi, ed è verosimile che tra i temi trattati ci sia stato anche un aspetto specifico del report preparato dall’ex premier per l’UE: per salvarsi l’Europa deve, innanzitutto, armarsi.

 

Di tutt’altro tenore le dichiarazioni a caldo del presidente dei 5 Stelle Giuseppe Conte, che al tempo in cui guidava il governo italiano aveva ricevuto un caldo incoraggiamento da Trump, passato alla (piccola) storia per averlo chiamato “Giuseppi, amico mio”. Conte non si è mai schierato apertamente con Kamala Harris, scegliendo una sorta di equidistanza e negli auguri di buon lavoro al nuovo presidente Usa prova a tirarlo dalla sua parte, per la fine delle guerre in corso, per la tutela dei diritti e contro i dazi. Il voto americano diventa così un nuovo capitolo nello scontro interno alle opposizioni al governo Meloni.

Pubblicato il 

08.11.24
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