Il ciclo economico statunitense degli ultimi 4 anni non somiglia a nulla di cui avessimo memoria. Inflazione e tassi di interesse mai così alti da qualche decennio avrebbero dovuto produrre, se tutto fosse andato come previsto, un aumento radicale della disoccupazione e una contrazione del PIL. Questo era quanto ci si aspettava e si temeva all’interno dell’amministrazione Biden. Ma l’economia non si comporta sempre come i modelli immaginano, a volte, poi, la politica può intervenire indirizzando almeno un po’ i comportamenti. Per sommi capi questo è quel che è successo negli Stati Uniti dove i mercati – del lavoro, delle merci e anche azionario – hanno continuato a comportarsi dignitosamente nonostante i tassi alti e l’inflazione e dove una notevole dose di spesa pubblica ha sostenuto questi comportamenti inattesi, contribuendo un po’ a far crescere l’inflazione, figlia soprattutto della serie di crisi che hanno toccato il pianeta in questi ultimi anni – dall’Ucraina al blocco del Canale di Suez, per citarne due che hanno avuto effetti sul costo dell’energia e sulle catene globali di fornitura. Negli anni di Biden la disoccupazione che aveva toccato il picco del 14,8% con il Covid alla fine della presidenza Trump non è mai andata oltre il 4,3% – mentre scriviamo è al 4,1%, con la partecipazione al mercato del lavoro che pure è cresciuta in maniera costante. Anche il PIL è sempre cresciuto, mentre il deficit, nonostante le dosi massicce di spesa, è cresciuto meno di quanto non abbia fatto con i tagli alle tasse introdotti dalla presidenza Trump. Tagli di cui hanno beneficiato soprattutto le fasce alte di reddito. Questi risultati sono figli della cosiddetta Bidenomics: ossia del ritorno dello Stato in economia, associato a un lavoro di dazi e incentivi per riportare produzioni in America e accorciare le filiere produttive, sostenere la sindacalizzazione (che vuol dire aumenti dei salari), sostenere i redditi in momenti di crisi come nel post Covid. Si tratta di una ricetta che ha avuto effetti e ha accompagnato fenomeni già in corso (aumento dei salari, rientro delle filiere). Con questi risultati in tasca, i Democratici USA dovrebbero dormire sonni tranquilli. Da un lato ci sono anni di crescita e dall’altro il caos della gestione del Covid, il record di disoccupazione e un avversario quanto meno discutibile. Ma non è così. Tutti i sondaggi indicano l’economia come priorità elettorale degli americani e la maggioranza dice di trovarsi peggio oggi di quattro anni fa. Si possono dare diverse spiegazioni per l’incapacità dell’amministrazione democratica di far apprezzare all’opinione pubblica i propri risultati. La prima è la qualità della comunicazione: mentre Trump ripete in maniera ossessiva (lo ha fatto per quattro anni) che quando c’era lui tutto andava per il meglio, Biden non ha trovato la chiave per vendere quel che faceva. C’è poi la dinamica lenta degli investimenti pubblici: girando per gli Stati Uniti si vedono lavori infrastrutturali in corso e persino diverse fabbriche in costruzione, ma questi investimenti di medio periodo si sentiranno nelle tasche e nella vita delle persone o sui mercati del lavoro locali, quando apriranno i nuovi ponti e le nuove stazioni o quando la fabbrica assumerà operai. I due fattori determinanti hanno però un nome diverso: inflazione e povertà. I poveri bianchi e l’inflazione Partiamo dalla seconda: in America nel 2023 c’erano ufficialmente circa 37 milioni di poveri (11,5%) la cui soglia di povertà è fissata a 15mila dollari l’anno per un singolo e a 25mila per una famiglia di tre, percentuale simile a quella lasciata da Trump. Con il Covid c’è stato un balzo in avanti fino al 12,6%. Ma davvero con 25mila dollari si sopravvive in tre negli USA? La risposta è fondamentalmente no. Il costo medio di una casa è 400mila dollari e solo il 10% delle case in affitto costa tra i 700 e i 1.000 dollari al mese. Nel suo libro appena uscito, il reverendo nero William J. Barber, leader della “Poor people campaign” sostiene che i poveri sono circa tre volte tanti e che la vulgata comune secondo cui i poveri sono neri o latinos è un modo per non affrontare il problema e far percepire ai poveri bianchi di non essere tali, i poveri sono gli altri (gli sfaticati) e la loro è una condizione di passaggio, un colpo di sfortuna. Invece di ragionare sulla propria condizione, dunque, i bianchi che non ce la fanno e che sono milioni in più di quelli ufficialmente poveri, coltivano risentimento. Trump offre loro un miraggio e dei nemici con cui prendersela. Se questo è il quadro della povertà, in cui la lower middle class (un concetto sfuggente che non riguarda il reddito ma la percezione di sé) vive in bilico, il ritorno dell’inflazione ha fatto il resto. Dal 2020 a oggi la benzina è aumentata di un terzo, le uova sono quasi raddoppiate, la carne di un terzo. Trump ha insomma degli argomenti e li usa in maniera ossessiva. La posizione scomoda di Harris Dal canto suo Kamala Harris è in difficoltà sul fronte della proposta economica perché è vicepresidente di Biden, deve rivendicare il lavoro fatto e non ha avuto primarie per discutere con altri e delineare un profilo politico proprio. Le sue proposte, a partire da quelle sulla costruzione di milioni di case a prezzi abbordabili e l’inclusione nei programmi di assicurazione pubblica (Medicare) della cura delle persone non autosufficienti sono risposte nuove a problemi che la gente vive, ma manca il messaggio. Harris non può dire “torneremo a stare meglio” mentre rivendica i risultati dell’amministrazione Biden. In questo Harris non è stata aiutata da una presidenza che oltre a essere stanca per ragioni anagrafiche ha insistito su un messaggio positivo, rivendicando dati mentre le persone vedevano la loro condizione peggiorare. Parallelamente Harris cerca di mandare un messaggio ai moderati, al mondo dell’impresa, piccola e grande. In sintesi Harris ci tiene a sottolineare che non è più il 2020, quando tra Covid e una crescita di istanze più radicali, i democratici avevano abbracciato il Green New Deal e insistito molto sulle tasse ai ricchi. La candidata democratica propone una tassazione sulle plusvalenze non realizzate per le ricchezze sopra i 100 milioni (quanto aumenta il valore delle mie azioni, anche se non le vendo, cioè se non incasso quel valore), ma la retorica politica è cambiata. L’idea è appunto quella di rassicurare i moderati, quelli che trovano Trump imbarazzante o pericoloso ma temono una presidenza “di sinistra” sul fronte economico. Con questa moderazione Harris spera di conquistare qualche voto qui e là in Stati e contee cruciali per vincere le elezioni – che si vincono negli Stati, non prendendo più voti a livello nazionale. Le costerà questa moderazione con il voto giovanile, cresciuto con l’idea che occorra affrontare la crisi climatica con il Green New Deal e le disuguaglianze con misure fiscali più radicali? O basta il pericolo Trump a portarli alle urne? E quanti sono i voti guadagnati? Quanti quelli persi? Lo scopriremo il 6 novembre. |