Nello sport le competizioni attirano il grande pubblico. Il desiderio di battere la concorrenza è uno dei moventi più forti per gareggiare. Tuttavia mai si fa combattere un pugile piccolo ed esile contro un atleta alto e pesante. I protagonisti dell’atletica leggera devono subire dei controlli rigidi di doping, un fantino troppo leggero deve portare con sé un certo peso, per le motociclette valgono prescrizioni precise circa il motore e le imbarcazioni dei canottieri sottostanno a regole dettagliate. Lo sport vuole la competizione, ma impone regole severe per garantire un confronto equo. In un campo ancora più importante per noi tutti, quello dell’economia, la competizione deve imporsi delle regole. In molti ambiti vengono imposte delle regolamentazioni dettagliate, per esempio rispetto ai gas di scarico di una macchina. Non solo una macchina fabbricata nella Corea del sud deve essere modificata in ossequio ai dettami svizzeri, il nostro paese non accetta neanche le norme dell’Unione Europea (Ue), ma insiste su parametri diversi, forse un po’ più severi. Per le persone che producono le macchine o altre merci e servizi non esistono invece riguardo alle condizioni di lavoro, a livello internazionale, delle norme da rispettare. Quindi una fabbrichetta dell’economia sommersa dell’Italia settentrionale che non paga contributi sociali e solo un minimo di imposte può vendere ovviamente a basso prezzo i suoi prodotti semilavorati che serviranno ad una ditta svizzera per costruire dei macchinari. Non c’è nessun arbitro che fischia il fallo, e di fallo si tratta poiché il concorrente svizzero rispettoso delle leggi e delle convenzioni collettive di lavoro non potrà mai offrire il suo prodotto ad un prezzo concorrenziale. L’imprenditore svizzero subisce la concorrenza sleale. Più crasso è il confronto tra una fabbrica svizzera (o europea) ed una cinese. Le paghe bassissime, in parte il lavoro di bambini, l’assenza di un sindacato vero e di norme incisive per la protezione dell’ambiente, i costi di trasporto irrisori sono fattori che impediscono ad una ditta svizzera di essere competitiva. Potrebbe esserlo introducendo la settimana di 50 ore, abbassando i salari, abolendo buona parte della sicurezza sociale e ricorrendo al lavoro infantile? Forse, ma vogliamo dissolvere la nostra società a tal punto? A questa domanda retorica la risposta è no. I sindacati e gli Stati europei devono piuttosto intervenire presso le organizzazioni internazionali. Oltre ad alcune norme tecniche che le fabbriche in tutto il mondo devono seguire se vogliono esportare in Europa, dovrebbero rispettare anche certi standard minimi salariali e sociali. Se le condizioni di partenza sono troppo squilibrate, la corsa diventa iniqua. Come nello sport, anche nell’economia sono necessarie delle regole, non solo nel campo tecnico. Così le maestranze nei paesi lontani otterrebbero delle condizioni di lavoro migliori e da noi i salariati non perderebbero le conquiste sociali acquisite in oltre cento anni di lotte sociali.

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08.07.05

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