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L’economia come strumento di potere dei ricchi

Dall’arrocco alla geoeconomia: sotto il rumore di fondo della locale politica spettacolo, a livello globale si afferma una strategia per usare l’economia come leva sovrana per preservare l’egemonia del capitale e scaricare il peso su chi lavora

Cambi il sedere a due poltrone governative e pensi di aver risolto il problema del tuo mondo. Si chiama “arrocco”. È la parola imperante sui media e nei bar dalle nostre parti. Non ha la nobiltà del gioco degli scacchi; ha tutte le paturnie della politica asfittica o alla canna del gas e riesce a creare “il” problema di Stato.

Nel mondo attorno, più discosto, pesa invece altra parola che appare più seria per diagnosi, contenuto e conseguenze. Un quotato giornale (Financial Times), sorta di faro per tutta la politica e l’economia mondiali, esce con il titolone: “Welcome to the new age of geoeconomics” (Benvenuti nella nuova era della geoeconomia). Ecco, la nuova parola: geoeconomia. Non l’ha inventata quel prestigioso quotidiano britannico; circolava da tempo negli ambienti accademici e persino il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha coniato l’espressione “frammentazione geoeconomica” indicandola come un pericolo incombente per l’economia.

 

Perché può o deve interessarci questa parola, comunque più importante di arrocco? Perché ne siamo investiti e ci condiziona. L’idea che rappresenta non è nuova. È dagli anni 90 che ci si dà da fare affinché gli Stati utilizzino le armi economiche e commerciali per imporre la loro “sovranità” o egemonia (v. Stati Uniti, Cina, Europa) e non solo quelle diplomatiche o militari come avviene nella geopolitica. E dentro il quadro di un ordine dominante che è il neoliberismo. Il quale non è una corrente di pensiero, ma “un modo di gestione del capitalismo per incentivare il tasso di profitto” (come sentenzia l’economista brasiliano Alfredo Filho).

 

Nel neoliberismo lo Stato non scompare né si indebolisce. Cambia però di ruolo e di natura. La sua parte ridistributrice (la sua “mano sinistra”) si indebolisce a profitto della sua parte disciplinare (la sua “mano destra”). La parte disciplinare tende a garantire l’esistenza e il funzionamento di un ordine economico fondato sui mercati internazionali e quindi sulla competitività. Puntando sulla sistematica compressione dei costi mediante l’aumento della produttività del lavoro come metodo fondamentale per riuscirci. Si sa poi come l’epoca neoliberale è riuscita a creare una sorta di fatalismo e d’impotenza incarnata nella famosa espressione: “Non c’è alternativa”.

 

Dove sta quindi l’importanza di quella parola? Nell’articolo citato del FT sta nel cambiamento verso un mondo dove l’economia diventa per gli Stati (o i loro governanti) un gioco politico o, meglio, lo strumento o l’artificio per consolidare o ristabilire la loro tipologia di potere, sostanzialmente il potere dei ricchi. Strumenti fondamentali sono l’avversione all’“altro”, il protezionismo o il ripristino delle barriere doganali, la sicurezza nazionale e la spesa militare “obbligatoria”.

 

La geoeconomia è in realtà ciò che resta a un capitalismo devastato dal fallimento in atto del neoliberismo, un mezzo per continuare a perpetuare l’accumulazione del capitale sotto l’ombrello dello Stato (generosità fiscale, sregolatezza) continuando però a mantenere la pressione sul mondo del lavoro perché è più la potenza o il preteso sovranismo o l’egemonia del Paese che non la competitività ad esigere il sacrificio dei lavoratori. Operando anche metodicamente, in nome della responsabilità individuale o della riduzione dei disavanzi pubblici, sullo svilimento delle protezioni sociali o la non ridistribuzione dei profitti generati.

 

FOTO: AdobeStock

Pubblicato il

10.06.2025 11:00
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