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L'auto europea in rotta di collisione
di
Tommaso Pedicini
Non è un caso che le grandi case automobilistiche tedesche abbiano presentato i loro piani di ristrutturazione proprio mentre a Berlino la Spd e la Cdu erano impegnate nel difficile compito di individuare un comune programma di governo. Coi media tutti concentrati sui precari equilibri della “Grosse Koalition” e sulle lotte fratricide in corso all’interno dei due partiti di massa, ai vertici della Volkswagen, della Opel e della Mercedes dev’essere sembrato meno rischioso ufficializzare le rispettive “razionalizzazioni”. Dietro l’ipocrisia del termine si nascondono, infatti, tagli mai visti prima nella storia dell’industria tedesca. Si parla di 14 mila posti di lavoro in meno alla Volkswagen e di 5 mila alla Mercedes, oltre che della conferma dei 10 mila “esuberi” alla Opel. I problemi di Opel e Vw non sono una novità per gli addetti ai lavori e hanno origini tutto sommato molto simili. Le difficoltà della Opel non derivano solo dall’alto costo del lavoro e dalla scarsa flessibilità degli operai tedeschi rispetto ai colleghi asiatici e dell’Est europeo, come sostengono i tagliatori di teste della General Motors, proprietaria del marchio tedesco, ma nascono anche da una serie di scelte manageriali fallimentari, da modelli di vetture rivelatesi dei veri e propri flop, dall’acquisto di materiale scadente a basso costo e dai mancati investimenti nella ricerca, specie nei settori del diesel e dei motori a consumo ridotto. La crisi del marchio è esplosa in tutta la sua evidenza un anno fa, quando Detroit ha annunciato un taglio di oltre 14 mila posti di lavoro in Europa, di cui 10 mila solo in Germania. La massiccia protesta degli operai, con cui hanno solidarizzato gli abitanti di Bochum e Rüsselheim (sedi degli stabilimenti a rischio), ha permesso di evitare la chiusura completa delle due fabbriche e di ricorrere al prepensionamento per molti operai. Il previsto taglio dei posti è però in atto, senza sconti. Sia la Opel che la Volkswagen producono prevalentemente automobili che, alla luce dell’attuale recessione economica, si sono rivelate troppo costose per il grande pubblico e al tempo stesso poco attraenti per i clienti più facoltosi. Il drammatico calo delle vendite (anche in Cina, mercato su cui l’azienda ha puntato moltissimo), il costo del lavoro e il carico previdenziale, ma anche una politica manageriale poco lungimirante sono i problemi che affliggono l’altro grande malato tedesco: la Volkswagen. Anche la crisi del gigante automobilistico di Wolfsburg nasce da lontano, ma si è manifestata contemporaneamente allo scandalo a base di mazzette e prostitute che ha travolto la commissione interna ed è costato il posto al capo del personale Peter Hartz e al sindacalista Klaus Volkert, vicepresidente del consiglio di sorveglianza. Indeboliti dallo scandalo, il sindacato e la commissione interna hanno firmato un accordo con la proprietà a dir poco remissivo, ma sicuramente destinato a fare scuola. In cambio dell’aumento della settimana lavorativa a parità di salario e di maggiore flessibilità nella gestione dei turni, l’azienda ha garantito il mantenimento dei posti di lavoro fino al 2011. Ciò nonostante nelle ultime settimane Wolfgang Bernhard, chiamato di recente a risanare l’azienda, ha annunciato di voler tagliare 14 mila posti di lavoro, ricorrendo a prepensionamenti e a liquidazioni “allettanti”. Conoscendo la biografia di Bernhard, che negli Stati Uniti ha “risanato” la Chrysler vantandosi di “non aver fatto prigionieri” (lì gli “esuberi” furono quasi 40 mila), non è da escludere che possa spingersi fino alla rottura del nuovo contratto. Da quando ai vertici della Mercedes siede l’altro “risanatore” della Chrysler, Dieter Zetsche, anche a Stoccarda tira una nuova aria. Benché il marchio con la stella non soffra degli stessi, pesanti, problemi di Opel e Vw, Zetsche e i suoi collaboratori ritengono che “la sfida della globalizzazione si vince tagliando i costi”. La solita manfrina, peccato che nessuno dei top manager ammetta che il calo delle vendite dell’ultimo biennio è dovuto all’“avventura” Smart e ai difetti di serie nella classe E. Chi al momento non sembra risentire della crisi sono i marchi di lusso come la Porsche, che sta per diventare il più grande azionista della Vw, scalzando il Land Bassa Sassonia che finora, col 18 per cento delle azioni, dettava la linea. Ma anche la Bmw, che ha già alle spalle una dura “razionalizzazione”, cui Bernhard e Zetsche guardano come modello, e che da qualche anno a questa parte sembra indovinare ogni mossa dal punto di vista delle strategie di mercato. Il marchio bavarese al momento vola in borsa, nonostante anche a Monaco siano in atto indagini su un presunto caso di corruzione che coinvolgerebbe i vertici aziendali. Buon momento, infine anche per l’Audi, unico marchio in casa Vw a segnare utili di questi tempi. Ma si sa, gli acquirenti di questi prodotti non conoscono problemi di liquidità, per loro la recessione non esiste. Secondo Ingrid Gier, portavoce dell’Ig Metall (il sindacato metalmeccanico tedesco), quella in atto in Germania è una crisi epocale per il settore automobilistico. A fronte di un’economia globale che ormai vende oltre 50 milioni di autovetture ogni anno, l’industria tedesca non sembra in grado di profittare dell’aumento di richieste e, anzi, in molti casi, cede mese per mese importanti quote di mercato. La crisi non è però generalizzata. A soffrire maggiormente sono soprattutto i grandi produttori, mentre le aziende più piccole non sembrano risentirne particolarmente.
Dove si notano maggiormente gli effetti della crisi nell’attuale panorama automobilistico tedesco?
La situazione è drammatica soprattutto alla Opel, anche se negli ultimi mesi le vendite hanno cominciato a risalire e lentamente i tedeschi sembrano riacquistare fiducia in questo marchio storico. Le cose vanno male anche alla Volkswagen. Lì il problema, oltre che dal calo delle vendite, è dato dallo scandalo che ha travolto i vertici e da una situazione non ancora definita a livello di proprietà. Cosa succederà quando non sarà più il Land Bassa Sassonia il primo azionista? Alla Mercedes si sconta un calo di vendite ed una serie di errori di produzione che hanno un po’ offuscato l’immagine, ma per il gruppo di Stoccarda si tratta di una crisi di dimensioni molto ridotte rispetto alla Opel e alla Vw.
Da parte delle imprese viene ribadito di continuo che, senza una riduzione dei costi, il futuro dell’industria dell’auto in Germania è a rischio.
Non si può negare che la globalizzazione metta a rischio gli stabilimenti in Germania e le conquiste dei lavoratori del settore. Io mi chiedo, però, perché, in un contesto nazionale, dove il lavoro costa più o meno lo stesso ovunque e il carico previdenziale è identico, ci siano risultati così diversi da marchio a marchio. Certo, è più facile produrre per un mercato di nicchia, come fa la Porsche, invece che mettere sul mercato contemporaneamente più modelli, come fanno la Opel o la Vw. Ma limitiamoci a guardare le attuali differenze tra la Bmw, che conquista sempre nuove quote di mercato e vola in borsa, e la Mercedes che negli ultimi anni continua a stentare. Il problema, allora, non è solo di costi elevati o di poca flessibilità, ma anche di idee scarsamente innovative e di strategie industriali fallimentari. La sfida della globalizzazione si vince anche con la qualità dei prodotti e la fantasia, non solo comprimendo i costi.
Quanto ha inciso in negativo lo scandalo alla Volkswagen sull’immagine del sindacato?
Prima di dare un giudizio vorrei attendere l’esito della commissione d’inchiesta appositamente istituita. Se i sospetti a carico dei colleghi della commissione interna saranno confermati, si tratterà, comunque, di casi individuali. Ho l’impressione che i nostri avversari stiano facendo di tutto per generalizzare un episodio di corruzione e trarne vantaggi immediati. Non è un caso che, prendendo spunto da quanto accaduto alla Volkswagen, alcuni rappresentanti degli imprenditori abbiano messo in discussione la cogestione aziendale.
Cosa chiedete al prossimo, probabile, governo di “Grosse Koalition”?
Le elezioni federali hanno indirizzato un chiaro messaggio al mondo politico, quello di non mettere in discussione i diritti dei lavoratori e lo stato sociale. Se l’elettorato avesse voluto una svolta neoliberista avrebbe dato la maggioranza alla Cdu ed ai liberali. Ma così non è stato. Quindi giù le mani dalla tutela contro i licenziamenti (che è già stata sufficientemente allentata senza alcun guadagno in termine di posti di lavoro) e no alla messa in discussione della contrattazione nazionale e della cogestione nelle aziende. Sindacato e lavoratori di flessibilità in questi anni ne hanno dimostrata abbastanza, anche se la nostra controparte e la maggior parte dei media continuano a dipingerci come immobilisti.
Pubblicato il
02.12.05
Edizione cartacea
Anno VIII numero 48
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