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L’auto affonda: John Elkann ai piedi di Trump

Mentre il settore attraversa una crisi globale, Stellantis investe negli USA per placare il tycoon e lascia l’Europa al palo. I lavoratori pagano il conto, mentre i governi si piegano alle lobby e all’industria bellica

Il giorno prima dell’insediamento, Donald Trump ha ricevuto un questuante spaventato dalla minaccia di nuovi pesanti dazi sulle auto importate negli USA. A bussare alla sua porta è arrivato John Elkann, presidente di Stellantis, con un regalo speciale: 5 miliardi di investimenti in Illinois, a Detroit, in Ohio e Indiana, per aumentare la produzione negli USA e rilanciare l’occupazione puntando sui modelli della Chrysler, promettendo assunzioni in Illinois, addirittura riapertura del sito di Belvidere chiuso da poco. La paura fa novanta e per prevenire le conseguenze delle politiche trumpiane Stellantis ha fatto un salto mortale, rovesciando le decisioni di lacrime e sangue, licenziamenti e chiusure di fabbriche, annunciate pochi mesi prima dal numero 1 negli USA della multinazionale dell’auto, Antonio Filosa. Trump ha apprezzato lo sforzo, anch’egli totalmente disinteressato al fatto che se dentro una pesante crisi della filiera dell’automobile la società decide di aumentare la produzione negli USA, da qualche altra parte la diminuirà con tutte le conseguenze del caso, visto che le auto non si vendono.

 

Se la situazione è pesante per tutti i costruttori di automobili, per i ritardi sulla transizione ecologica e la ricerca e per i costi dell’energia che la guerra in Ucraina ha fatto schizzare in cielo, per Stellantis lo è ancora di più: diminuzione della produzione e delle vendite, dunque del fatturato e dell’utile netto sceso del 70%. Questo va a colpire i lavoratori il cui premio di risultato è legato ai numeri dell’azienda: solo 600 milioni di euro da distribuire fra i dipendenti, tra i 630 e gli 830 euro nell’anno, mentre gli azionisti com’è tradizione si salvano e si spartiranno un bottino da 5 miliardi, otto volte di più dei lavoratori. I salari operai sono bassi e, in più, falcidiati dalla cassa integrazione in fabbriche che rischiano la ruggine. Ma a rendere la situazione ancora più grave per Stellantis è la perdita di quote importanti di mercato. Nell’anno in corso saranno investiti 2 miliardi in Europa contro i 5 negli USA. Le responsabilità della crisi attuale vanno ricercate nelle strategie sbagliate del management, denuncia la FIOM.

 

Il governo latita, e se gli ammortizzatori sociali salvano almeno in parte occupazione e fette di salario nelle grandi aziende, in quelle piccole e medie dell’indotto i sindacati lottano per impedire i licenziamenti e allungare la durata della cassa integrazione. Meloni, come gli altri premier dei paesi in cui si producono automobili, si limita a mandare i suoi uomini a Bruxelles per fare lobbying al fine di ritardare i tempi della transizione ecologica e soprattutto delle multe alle case inadempienti. Obiettivo raggiunto, Von der Leyen cede e i conti sull’inquinamento provocato dai vecchi modelli non elettrici si faranno solo fra tre anni. C’è una voce che circola nei corridoi di Palazzo Chigi, talmente indecente che nessuno se ne attribuisce la paternità: visto che l’UE apre le porte all’indebitamento sulle spese militari (ben 800 miliardi), anzi pretende il raddoppio dall’1,5% italiano al 3% sul PIL, cogliamo l’occasione e riconvertiamo l’industria automobilistica in industria bellica. Sarà solo propaganda, ma la propaganda spesso sdogana persino i tabù e consente ai governi di rinviare all’infinito la formulazione di un credibile piano industriale che in Italia manca completamente. Invece sono in tanti ad attribuirsi l’idea, non meno folle e offensiva della volontà degli elettori espressa con due referendum, di tornare al nucleare per ridurre i costi dell’energia.

 

Una crisi, tante crisi

L’auto non è l’unico settore in crisi, perché dentro l’automobile c’è di tutto, dall’elettronica alla siderurgia, dal commercio alla plastica ai servizi per l’industria. Dentro questa crisi i sindacati dei metalmeccanici stanno lottando per rinnovare un contratto nazionale scaduto lo scorso anno. Le associazioni padronali aderenti alla Confindustria hanno fatto saltare il tavolo di trattativa con i sindacati rifiutando di discutere la piattaforma di FIM, FIOM e UILM approvata praticamente all’unanimità dai lavoratori. Al contrario, Federmeccanica e Assistal hanno presentato una loro piattaforma, cosa mai avvenuta nella storia delle relazioni industriali nella categoria più importante dell’industria. I sindacati si muovono all’unisono, e questa è una buona notizia dopo la controrivoluzione che ha portato la CISL nell’orbita governativa e ha già prodotto accordi separati firmati solo dal sindacato cattolico contro CGIL e UIL, come nel caso del rinnovo del contratto degli statali. Non sono bastate le 24 ore di sciopero già fatte dall’inizio dell’anno e il blocco degli straordinari a far scendere a più miti consigli i padroni, ma FIM, FIOM e UILM non cedono e le segreterie riunite dei tre sindacati hanno annunciato altre 8 ore di sciopero nazionale il 28 marzo con manifestazioni in tutt’Italia per riconquistare la trattativa. Da 25 anni il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici non richiedeva così tante ore di sciopero. La piattaforma sindacale prevede aumenti di 280 euro mensili (i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa), riduzione dell’orario e della flessibilità. Nonostante la scarsa attenzione della politica, del governo e dei media alle condizioni dei lavoratori, i metalmeccanici non si smentiscono e ricordano a tutti che con la lotta si può strappare quel che la ragione, la politica e la mediazione non riescono a ottenere.

Pubblicato il

07.03.2025 09:46
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