Ai lettori (o ai lavoratori che hanno altro di cui preoccuparsi) sembrerà bizzarro o cervellotico che uno, nel giorno della festa del lavoro, finisca per peregrinare in letture “filosofiche” sul lavoro. Attratto, perdipiù, da un libro inglese appena apparso, con titolo impegnativo, ma forse ancora più strambo. Impegnativo perché chiama in causa un antico filosofo (Baruch Spinoza,1632-1677) che, in realtà, ha parlato più di etica che di lavoro e un altro filosofo, Carlo Marx, che invece di lavoro, sfruttato e alienante, ha parlato molto. Strambo perché gira attorno a misteriosa espressione inglese: double shift (per completezza v.: Jason Read,A Double Shift: Spinoza and Marx on the Politics of Work, Verso Books,2025). Perché potrebbe interessare ai lettori di area? Che significa dapprima quel “double shift”? Letteralmente: “doppio turno” o spinta al doppio lavoro (“to pull a double”). Ciò che si vuol rilevare è che la necessità e l’esigenza di lavorare sempre di più (o anche del doppio reddito familiare) sono caratteristiche tipiche, quasi inevitabili, nelle società capitaliste contemporanee. Più precisamente: non si possono capire alcuni paradossi del lavoro o la sua intensificazione nel contesto capitalista contemporaneo se non cogliendone, non solo l’aspetto materiale (e qui entra in campo la “base economica” di Marx), ma rilevandone anche quello ideologica (e qui entrano in campo le considerazioni morali ispirate da Spinoza). Si tratta insomma di far presente che il lavoro ha una propria dimensione ideologica-etica e che il lavoro non è mai riducibile alla sua sola “materialità”. Poiché può sembrare complicato si chiama in aiuto Spinoza con un esempio divenuto famoso. La percezione delle tracce lasciate dal cavallo su un terreno, non scatena le stesse associazioni mentali in un contadino o in un soldato: il primo assocerà subito l’immagine del cavallo all’aratro, il secondo a un cavaliere armato. Contadino e soldato non si distinguono per la loro cultura, nazione o linguaggio, ma per il loro “lavoro”. Quale senso voleva avere quest’esempio? Voleva dire che il lavoro è una delle attività umane che maggiormente forgiano, caratterizzano l’individualità, segnando sia la memoria del corpo sia le immaginazioni che ne derivano. Di conseguenza il lavoro non consiste solamente nel produrre oggetti; produce anche “soggettività”. E che cosa significa, in pratica? Significa che il lavoro non è un’attività tra tante altre, ma è diventato il modello di ogni attività e di ogni azione. È importante e determinante allora comprendere come i lavoratori possano accettare questa situazione o contribuire a mantenerla. Significa evitare il pericolo di un mondo in cui tutte le attività umane (persino la politica) siano assorbite nel lavoro e nella produzione, ossia nello sforzo per soddisfare i propri bisogni e mantenersi in vita. Significa scongiurare la “mitocrazia” dell’ideologia dominante (che è una variante di una certa etica, in particolare americana) secondo la quale ognuno può diventare ricco, avere successo se sa “lavorare duro senza alzare la testa” e valere per quanto guadagna. Significa non finire in una “solidarietà negativa” che è ormai di moda (sostenuta recentemente nella propaganda di certi partiti ticinesi, forse su imitazione di quanto il trumpiano Musk fa negli stati Uniti) la quale assume la forma di una ostilità nei confronti di chi si immagina che non lavora o lavora poco o guadagna a sbaffo (gli impiegati statali, gli insegnanti, gli immigrati, gli “assistiti”) e ai quali va appunto tolto… il lavoro. |