L’arte del viaggiare

In un libro di qualche anno fa (L’art du voyage, Bayart, 1999), il sinologo e viaggiatore francese Jean Chesnaux racconta un aneddoto. A Città del Messico per un convegno, si trova a dover scegliere come impiegare alcuni giorni liberi: visitare le vicine e “imprescindibili” piramidi di Teotihuacan oppure addentrarsi nelle zone industriali dell’anti-turistica Tijuana? Chesneaux non ha dubbi: si imbarca su un volo per la città al confine con la California. Lì, accompagnato da un amico del posto, percorre a piedi - nessun biglietto di entrata, nessun trasporto preferenziale – i depressi quartieri dove brulicano le maquiladoras, fabbriche di assemblaggio a capitale estero che godono di esenzione fiscale e sfruttano la manodopera locale a basso costo. In quell’occasione e in tante altre, Chesneaux non scelse la neutralità dell’attrazione turistica, bensì le contraddizioni di una realtà che solo un viaggio – per corto che sia, anche tre giorni – può svelare. Per Luciano Del Sette, direttore della rivista per viaggiatori Sandokan (www.sandokan.net), sviluppare oggi l’arte del viaggio è sempre più difficile. Coautore della Guida ai viaggi a occhi aperti (Airplane, Bologna, 2001), Del Sette ritiene che le figure del “turista” e del “viaggiatore” appartengano ormai al passato: «C’è sempre stata una differenziazione fra “viaggiatore” e “turista”, ma queste due categorie sono fasulle. Oggi siamo tutti turisti: la discriminante è fra chi viaggia con intelligenza e chi si lascia portare. La stragrande maggioranza delle persone oggi fa tre settimane di vacanza e basta: solo in rarissimi casi è possibile partire per un viaggio e tornare in ufficio senza che ti licenzino. La modernità da un lato ti dà la possibilità di coprire lunghe distanze in qualche ora, ma dall’altro ti toglie il tempo per poterle percorrere». Luciano Del Sette, ma allora oggi è impossibile coltivare quest’arte del viaggio di cui parla Jean Chesneaux? Anche se si hanno solo tre settimane di vacanza, l’arte del viaggio la si può ancora coltivare preparandosi in anticipo: leggendo dei libri, studiando le carte, cercando di capire come distribuire al meglio il tempo a disposizione, non pretendendo di percorrere distanze enormi ma concentrandosi su un’area ristretta. Spesso però chi va in vacanza in posti sconosciuti ha tendenza a voler vedere – o consumare – tutto, senza soffermarsi sui luoghi che visita. Oggi il problema fondamentale è che, in generale, la gente pensa che dopo essere stati in un paese la vacanza successiva bisogna cambiare destinazione. Tornare sui posti già visitati, però, permette di farli propri. Questo è un modo per coltivare l’arte del viaggio. Viaggiare presuppone una decelerazione rispetto ai normali ritmi di lavoro che non sempre è facile da attuare. Dalla seconda metà degli anni ’80 siamo stati abituati a consumare “viaggi”, facendo per esempio Bali, Bangkok, Singapore e Hong Kong in 18 giorni: quando torni da una simile maratona ti sfido a ricordare qualcosa. Purtroppo questa è l’immagine dominante di viaggio. Decelera chi invece viaggia in modo autonomo, in una zona ristretta e magari già conosciuta. Quella parte di mondo la esplorerai magari in due, tre volte invece che una, ma poi la conoscerai bene. Bisogna abbandonare l’abitudine di pensare che più posti si vedono più si viaggia. Questa è un’idea completamente falsa. Lei è coautore della nuova “Guida ai viaggi a occhi aperti”. Qual è il messaggio che intendete far passare? Noi abbiamo disegnato una mappa di questo mondo sempre più pericoloso per rendere attento chiunque ritenga esaltante andare in certi luoghi e assaporare l’avventura. Il messaggio importante è che viaggiare a occhi aperti significa prestare attenzione al fatto che spesso si va incontro a culture molto diverse dalla nostra. Quando non si tien conto degli atteggiamenti religiosi, della cultura e delle superstizioni dei popoli con cui veniamo a contatto è facile creare equivoci o addirittura suscitare ostilità. Persino piccoli gesti – come per esempio dare la mano a una donna in un paese isalmico – può essere fonte di problemi in un contesto culturale radicalmente diverso dal nostro. Rispettare la cultura vuol dire informarsi sulle realtà che si va a conoscere onde evitare conflitti. Noi ci dimentichiamo di quanto succede da noi in Italia: se un settentrionale va in Sicilia e versa il vino con la mano sinistra sarà mal visto da chi gli passa davanti in quel momento perché il gesto è considerato di malaugurio. Sapendo che superstizioni, tradizioni culturali e religiose esistono anche a casa nostra, perché non dovrebbero averle gli altri? In che modo gli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001 hanno modificato le abitudini al viaggio degli Italiani? Secondo me l’11 settembre è già stato un po’ dimenticato: i timori si sono stemperati. Fra tutte le gravi ripercussioni della recente guerra in Iraq, qualcosa di positivo c’è stato: la gente ha imparato che deve prendere atto della geografia del mondo e che i viaggi devono essere molto più pensati. La seconda guerra del Golfo secondo me ha portato una certa matrurità negli Italiani riguardo ai viaggi da compiere. Quali sono secondo lei le tendenze più interessanti e innovative nelle scelte turistiche degli Italiani? Sta crescendo molto l’attenzione per le capitali europee, un interesse che unisce i giovani e le persone mature. Le città d’arte sono ambite in quanto restituiscono ciò che la quotidianità ci sta negando, l’estetica. Poi c’è l’esplosione dell’agriturismo, in assoluto il fenomeno di maggior successo nel settore perché sempre più gente è alla ricerca del silenzio che non ha nella vita di tutti i giorni. L’esotico, al contrario, è in perdita di velocità per vari motivi (Sars, terrorismo internazionale, eccetera). Si può dire che esiste una forte ricerca di tranquillità, di stabilità che all’Italia sta giovando moltissimo. Sempre più italiani decidono oggi di restare in Italia. E a livello di offerta quali sono le novità più interessanti? Mah, io credo che negli ultimi anni siano stati più gli italiani a costruirsi i viaggi piuttosto che i tour operators a offrirli. A me sembra che il panorama sia sempre mediamente piatto. Le offerte sono simili e tutte piuttosto care perché con l’euro i prezzi sono lievitati. Ripeto, io vedo un gran piattume. E inoltre si è spenta un po’ anche la magia dell’esotismo. Vent’anni chi diceva “vado a Bali” veniva frainteso. “Ah, vai a Bari”, gli rispondevano. Da anni invece andare a Bali è diventato normale. Gli atolli sono stati tutti scoperti, e quelli che una decina di anni fa erano ancora paradisi ora sono degli immondezzai. Beh, Cuba tira sempre però… Il Caribe continua a essere superfrequentato. Cuba risulta molto simpatica agli italiani. Quando Furio Colombo ed io presentammo Sandokan alla stampa dicemmo però che non avremmo parlato solo di Varadero, Cayo Largo o di altri paradisi, ma anche della pena di morte e delle altre contraddizioni dell’isola. Se il turista se ne frega e decide di andarci solo per le jineteras o i jineteros (giovani ragazze e ragazzi che “cavalcano” il turista alla ricerca di dollari, ndr), affari suoi. Ma secondo noi a fare una scelta intelligente sono coloro che – lasciando albergo e spiagge turistiche – si addentrano nella realtà cubana e nelle sue profonde contraddizioni.

Pubblicato il

11.07.2003 04:30
Stefano Guerra