I dipinti sono ammassati alla rinfusa in una stanza al secondo piano, tre metri per due a lato della porta metallica che conduce sul tetto piatto con le cisterne per l’acqua. Quasi tre anni di abbandono hanno lasciato un’impronta evidente. La polvere rinsecchita dal caldo torrido riveste le opere come una patina, facendo trasparire solo gli ampi squarci inferti dai jihadisti sulle tele. Quello che un tempo era l’atelier di un artista, oggi sembra un ammasso di rifiuti, dove i frammenti di intonaco scricchiolano sotto le suole, rompendo un silenzio quasi irreale. Dal controsoffitto penzolano pannelli in gesso scivolati dall’intelaiatura a quadrati. La struttura portante dell’edificio tuttavia è integra, le granate più vicine sono cadute a qualche decina di metri di distanza. Questione di fortuna. Siamo nell’abitazione di Matti al-Kanun, pittore cristiano-siriaco di 74 anni. L’ingresso è rivolto verso un quartiere periferico di Bartella, città irachena posta venti chilometri a est di Mosul, sulla direttiva che conduce a Erbil, capitale dell’autorità regionale curda in Iraq. Al pari di molti centri dell’Iraq settentrionale, la città è stata conquistata dai miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi durante la genesi dell’autoproclamato Stato Islamico. Era il 6 agosto 2014 quando i jihadisti superarono l’ultima resistenza dei peshmerga curdi, estendendo il loro metodo di governo a Bartella e su gran parte della Piana di Ninive, fino alla catena dei monti Sinjar a est, nella terra in cui si è consumato il massacro degli yazidi, a ridosso del confine turco-siriano. Per decine di migliaia di cristiani e di shabak sciiti, le principali componenti etniche di Bartella, l’unica soluzione è stata la fuga. Tre anni dopo la città è libera, ma languisce in uno stato di profondo degrado. Il quartiere in cui viveva la famiglia Al Kanun è disseminato di macerie. Tutto attorno, silenzio e carcasse di auto blindate testimoniano gli scontri avvenuti a ottobre 2016, quando le truppe dell’esercito iracheno riconquistarono l’area. Era l’inizio dell’offensiva “Stiamo arrivando, Ninive” contro lo Stato Islamico in Iraq, poi diventata “Battaglia di Mosul”, il cui termine e la «fine di Daesh in Iraq» sono stati celebrati il 10 dicembre 2017 dal Primo ministro e comandante in capo delle forze armate di Baghdad, Haider al-Abadi. Un successo che secondo Iraq Body Count è costato 18mila vittime, 9mila solo a Mosul, cui si aggiungono violazioni dei diritti umani commesse da entrambe le parti, dai jihadisti assediati e dal composito fronte dei liberatori. “Liberazione” che nel caso della città simbolo della battaglia contro Daesh in Iraq non ha avuto nulla di eroico. Secondo Amnesty International, tra il 19 febbraio e il 19 giugno 2017, 5.805 uomini, donne e bambini sono rimasti uccisi a Mosul, a causa dell’offensiva condotta dalle truppe irachene supportate dalla coalizione internazionale a guida statunitense. Sul fronte opposto, i jihadisti asserragliati nei quartieri residenziali della città vecchia hanno usato i civili come scudi umani, per ridurre l’intensità del fuoco nemico, uccidendo chiunque tentasse la fuga tra le macerie, centinaia se non migliaia di persone. Crimini proseguiti anche fuori dal campo di battaglia, con molti casi – denunciati da Amnesty – in cui esercito iracheno, peshmerga curdi, paramilitari delle diverse milizie schierate contro l’Isis hanno commesso esecuzioni sommarie ai danni di presunti miliziani. Trattamento riservato anche ai civili colpevoli di avere avuto legami con i nemici, condannati a morte dopo aver estorto confessioni sotto tortura. La riconquista di Bartella è avvenuta prima che l’assedio di Mosul prendesse le sembianze di una rappresaglia verso i sunniti, accusati di aver aperto le porte ai jihadisti, consentendo la nascita del Califfato. Dopo aver costretto i miliziani alla fuga, a Bartella è iniziata la lenta bonifica dagli ordigni inesplosi e dalle trappole esplosive, proseguita fino a primavera 2017. Ciò ha permesso agli abitanti di rientrare, almeno per poche ore, giusto il tempo di quantificare i danni subiti dalle abitazioni e magari mettere un po’ in ordine. «In città erano fuggiti tutti ormai, verso Erbil. Ho visto delle persone caricare su un mezzo le loro cose e andarsene, erano tra gli ultimi rimasti. A quel punto ho capito che non potevamo rimanere oltre. Un’auto ci ha portati a Kalak, e da lì a Erbil». Usa queste parole Matti al-Kanun per descrivere quel giorno di agosto 2014, quando è fuggito da Bartella. Si esprime nella sua lingua, variante locale dell’aramaico con qualche intrusione di arabo. Una frase alla volta, trattenendo l’emozione davanti all’ingresso di casa assieme alla nuora Elien che funge da interprete. «Quando siamo scappati abbiamo preso poche cose, ho lasciato qui molti dipinti, con me ho portato solo i più piccoli, in un album. Ho sofferto molto per questo, ma non c’è stata alternativa». Per AlKanun e la sua famiglia, dodici persone in tutto, è iniziato il loro limbo a Erbil, in un monolocale dalle pareti in cartongesso ricavato nelle aree sfitte del centro commerciale Nishtiman, divenuto un campo profughi per centinaia di famiglie cristiane e musulmane, allo stesso modo fuggite dalla guerra. «Guarda, avevamo un bel prato, con i fiori e l’erba verde», protesta Ramiz al-Kanun, figlio di Matti, mentre scorre vecchie foto di casa sullo schermo del telefono, soffermandosi nella stessa posizione da cui erano state scattate. L’immagine di oggi è desolante, un fazzoletto di terra secca punteggiata da bossoli di proiettili e da qualche filo d’erba. Poi si alza, scuote la testa e prosegue verso l’ingresso, sotto una tettoia ombreggiata che protegge dai cinquanta gradi di agosto. La casa è vuota, i jihadisti hanno visitato ogni abitazione, rubando arredamenti e suppellettili, poi svenduti all’interno del loro Califfato o usati come ricompensa per i soldati meritevoli. «Prima della fuga la casa era stata rimessa a nuovo, il 9 agosto io e Rami ci saremmo sposati», spiega Elien, indicando gli spazi vuoti della sala da pranzo, «stavamo già preparando il cibo per gli ospiti, ma tre giorni prima siamo fuggiti. Hanno preso la cucina, hanno preso tutto, sono rimasti solo un cuscino e una tenda». Superato l’atrio, Matti al-Kanun infila le scale e si affretta a raggiungere il suo atelier e le tele rimaste. Nell’ammasso spicca la sua “Madonna con bambino” addossata alla parete, un metro e ottanta di altezza per un metro di larghezza. Sotto alla patina di polvere si scorge il turchese dello scialle su sfondo azzurro, in contrasto con i gialli e l’arancio usati per delineare l’aureola. L’immagine risulta comprensibile malgrado lo squarcio al volto, poi un altro esteso all’intera lunghezza del busto. Stessa sorte è toccata al “Ritratto di Gesù” e alla “Deposizione di Cristo”, ugualmente deturpati in nome di un’iconoclastia che, benché non sia specificamente islamica, attribuisce al gesto dei miliziani un carattere peculiare: colpire le minoranze attraverso i loro simboli religiosi. È questo lo scopo degli uomini di Al Baghdadi, per i quali l’estensione del Califfato prevede l’eliminazione di qualsiasi elemento alieno alla loro ideologia. Trattamento riservato in egual misura a cristiani, curdi, yazidi e musulmani sciiti. «Hanno tagliato le tele in quanto è nella loro cultura», spiega Al Kanun, con gli occhi inchiodati sui dipinti disposti sul tetto. «Sono nemici, sono contro i cristiani e le altre minoranze, è il loro modo di eliminare la nostra identità. Sapevo che sarebbe accaduto. Rientra nel loro modo di agire». La reazione dell’artista siriaco di fronte allo scempio dei jihadisti è inequivocabile. «Voglio riparare i miei dipinti per dimostrare che si può resistere. Non sono un uomo politico, non sono nemmeno un soldato. L’arte è l’unico modo che ho per oppormi a tutto questo». Trovato un furgone a Erbil, Matti al-Kanun e il figlio Ramiz tornano a Bartella per recuperare le opere. Le tele trovano posto l’una sull’altra, ammassate nel cassone del mezzo. Poi inizia il difficile rientro attraverso il checkpoint dell’esercito iracheno, poi quello dei peshmerga curdi, ultimo ostacolo sulla via di Erbil. Qui Al Kanun completa il lavoro. Con un pezzo di tela, dell’acqua e un po’ di colla vinilica ricompone gli squarci delle opere. Lo fa per sé stesso, per la sua comunità e per le altre comunità dell’Iraq, a prescindere dalla fede o dall’etnia, tutte in egual misura colpite da tre lustri di violenze, iniziate quando “stato islamico” erano ancora parole senza senso. Il suo è un messaggio di speranza. Mettendo assieme i brandelli squarciati vuole ricomporre le divisioni provocate dalla guerra, causa di profonde spaccature tra le comunità dell’Iraq. Un segno dopo l’altro Al Kanun rimette ordine tra le parti. Così facendo manifesta la sua resilienza al fanatismo e alla guerra, intende dimostrare la volontà di un popolo intero, mai come ora sfiancato dall’odio e dalle divisioni etniche. Un messaggio di speranza pensato tra le ombre della guerra. Questo perché «tornare alla vita è possibile», anche partendo dalle macerie, anche in Iraq. Parola di Matti al-Kanun.
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