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L'antifragilità che rende più liberi

L'improvvisa interruzione di corrente elettrica che lo scorso 28 aprile ha colpito per quasi ventiquattro ore l’intera Spagna e l’intero Portogallo ha tenuto banco ovunque tra le prime notizie. Tra lo stupore, i timori e le paure o gli interrogativi sulle debolezze della nostra civiltà tecnologica. Le immagini poi diffuse di persone intrappolate negli ascensori o bloccate nei treni o imprecanti negli ingorghi stradali per i semafori spenti, erano di panico crescente. E poi linee telefoniche mancanti, nessuna connessione a Internet, accesso impossibile ai conti bancari o ai distributori automatici. E in parecchi casi anche rubinetti asciutti per le pompe ferme oppure, per i fanatici della “smart home” che regolano tutto con il telefonino, porte che non si aprono più, griglie e persiane inamovibili. Ma soprattutto la domanda: che cosa si può ancora fare senza elettricità?

 

Ed è forse qui che si è più che mai attualizzato il “pacchetto” di accordi tra Svizzera e Unione europea in cui è emerso, forse più evidente di altri, quello che riguarda l’elettricità. Anche per un motivo logico che, almeno quello, non si può contestare, sminuire e tantomeno negare: abbiamo 40 linee transfrontaliere con l’Europa. Ciò non implica, tuttavia, che non scorrano difficoltà e contrasti. E infatti ci si attende un lungo dibattito con l’avvio a giugno della consultazione sul “pacchetto”. Anche perché il contesto politico attuale è di grande incertezza e, dopo la guerra in Ucraina, è riemerso più che mai il rischio di penuria d’energia e ciò che è capitato nella penisola iberica è assunto come prova generale di ciò che può significare un black-out. È allora politicamente scontato che se ne approfitti. O per dire che l’accordo con l’UE è essenziale per la sicurezza energetica del Paese, garantendo le capacità di importazione e stabilizzando la situazione a lungo termine; o per pretendere la liberalizzazione completa del mercato (con le incertezze di approvvigionamento e gli immancabili prezzi ballerini) oppure la immediata cancellazione della decisione del popolo di uscire dall’energia nucleare (anche se saremo totalmente dipendenti dall’importazione della materia prima essenziale, l’uranio, e non sappiamo ancora come e dove depositare le scorie radioattive con sicurezza).

 

Il caso da cui siamo partiti dovrebbe però portarci ad altra considerazione. E cioè: sull’estrema fragilità delle nostre economie ipercentralizzate. Diceva un grande economista, cui dobbiamo molto, ch’era anche filosofo (Keynes): quando l’impossibile si fa possibile, il necessario diventa indispensabile. Gli faceva eco un grande matematico (Taleb) che conia un concetto che oggi diventa sempre più fondamentale: quello dell’antifragilità; per l’esperto del calcolo delle probabilità, il contrario del fragile che si rompe non è il solido che resiste, ma l’antifragile che si adatta all’imprevisto e si trasforma riassorbendo i contraccolpi che riceve. Lo scopo non è di costruire una società di eremiti autosufficienti, che è un’illusione, ma di sapersi sempre garantire una “resilienza locale” (o personale). Certamente meno efficiente dei grandi sistemi fatti di sinergie ed economie di scala, ma che garantisce ancora una stabilità che non ha prezzo. E la garanzia di un’autonomia, anche minima, permette sempre di prendere le distanze da un potere centrale economico o politico. L’antifragilità rende più liberi. (A ben pensarci è anche la storia del sindacato).

 

foto: Diego Torres Silvestre - wikimedia commons

Pubblicato il

26.05.2025 09:31
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