L’alba dello Stato penale

Ancora recentemente, leggendo i giornali, si può notare quanto sia difficile per i politici, ma non solo per loro, non cedere alla tentazione di invocare la tolleranza zero quale formula semplificatoria di risoluzione di alcuni problemi. L’idea di tolleranza zero ha in effetti una capacità seduttiva non indifferente: fa leva sul bisogno crescente di sicurezza, con voce ferma e chiara indica un nemico e, con voce sempre forte e decisa, ci dice della volontà di volerlo combattere, senza tentennamenti. Ed è decisamente molto pagante in termini elettorali. In effetti le politiche di tolleranza zero, che sono state inaugurate una decina di anni fa negli Stati Uniti, hanno contribuito al successo elettorale di molti politici. Uno dei primi è stato Rudolph Giuliani che è diventato sindaco di New York nel 1993 e che è stato un vero precorritore delle politiche cosiddette sicuritarie. In Europa le politiche di tolleranza zero hanno trovato una accogliente terra di adozione in Inghilterra da dove in seguito sono state esportate un po’ in tutto il continente. Il sociologo Loïc Wacquant ha notato come le politiche di tolleranza zero abbiano talvolta una patina democratica (sono state promosse sia da amministrazioni di destra che di sinistra), se ne parla cioè nei termini di politiche per la sicurezza dei cittadini che hanno lo scopo di ristabilire, attraverso la lotta alla criminalità, la qualità della vita. In realtà le politiche di tolleranza zero, indipendentemente dalle pretese di democraticità, stanno a indicare il declino, se non l’abbandono, dello stato sociale e il progressivo costituirsi di uno stato penale. La fortuna della parola d’ordine tolleranza zero ha finora coinciso passo passo con il progressivo abbandono delle preoccupazioni di riforma sociale e con il farsi strada della visione neoliberista, secondo la quale lo stato deve ritirarsi non solo dall’economia, ma anche dall’erogazione di servizi sociali, lasciando tutto all’iniziativa privata e alla regolamentazione del mercato. Con l’affermarsi dell’ideologia neoliberale si è proceduto ad una ridefinizione del problema della criminalità nei termini di una questione di responsabilità dell’individuo. Semplificando, possiamo dire che con l’ideologia del welfare gli individui erano considerati nel loro contesto sociale e il problema della criminalità avrebbe dovuto essere affrontato nei termini di un tentativo di risocializzazione. La pena aveva idealmente anche il senso di una riabilitazione. Oggi, con il primato dell’iniziativa privata e dell’idea di responsabilità personale, gli esseri umani sono piuttosto considerati come esseri liberi e autonomi non condizionati, ma caratterizzati solo dalle loro capacità di intendere e di volere. Ecco che allora diventa preferibile che lo stato abbandoni la vocazione alla prevenzione sociale (rinunciando a costose politiche sociali) e si trasformi in uno stato penale che affronta il crimine come un dato inevitabile, o se vogliamo come un evento naturale che va controllato, gestito e contenuto attraverso politiche che sono definite di prevenzione situazionale (avrete notato, tra l’altro, che una delle parole più di moda oggi è monitoraggio). Quindi, attraverso un potenziamento sia dell’apparato e delle strutture di polizia, sia dell’amministrazione della giustizia, si mettono a punto strategie di sorveglianza, si aumentano le carcerazioni, si inaspriscono le pene, si introducono leggi più repressive, si cancellano le norme specifiche sulla delinquenza giovanile e si introduce il lavoro obbligatorio. Per Zygmunt Bauman, ma non solo, lo stato penale è l’alleato prezioso della precarietà: insieme servono a far accettare le regole e le conseguenze del libero mercato. Lo stato penale si occupa di quelli che sono, per dirla cinicamente, i residui umani della precarizzazione: è lo strumento che tiene sotto controllo i presunti non meritevoli, cioè coloro che non hanno retto alla precarizzazione e al declino dello stato sociale. In questo decennio lo stato penale, appoggiandosi alle popolari politiche di tolleranza zero che sono accompagnate sempre da ridondanti campagne mass mediatiche, si è dimostrato un potente sistema di criminalizzazione della miseria (le politiche di tolleranza zero si occupano in effetti in primo luogo di microcriminalità: reati minori, piccoli spacciatori, prostituzione, vandalismi ma anche piccole infrazioni come il semplice spargimento dei rifiuti, o il disturbo della quiete pubblica). Ma si è rivelato anche un potente strumento di normalizzazione della precarietà salariale, in particolare attraverso l’obbligo al lavoro (il workfare). Negli Stati Uniti, ma anche in Inghilterra dove è in atto una alleanza tra stato penale e servizi sociali, si fa ricorso a delle prestazioni salariali obbligatorie in sostituzione dei diritti sociali (ad esempio, per avere diritto alle allocazioni, le madri assistite devono partecipare ad un programma di lavoro.) L’obbligo al lavoro è una vera e propria forma di crumiraggio istituzionalizzato, è uno dei modi in cui si fa accettare come nuovo standard il lavoro sottopagato, precario, flessibile e non tutelato. Quello che è in atto è un processo di ridefinizione e rilegittimazione dello stato: si cerca di riaffermare la capacità di azione di uno stato nel momento in cui questi sta rinunciando alle sue funzioni economiche e sociali. Sappiamo che la politica economica è diventata una politica di adattamento alle esigenze delle imprese: tassazione moderata, poche regole, un mercato del lavoro flessibile e ultima cosa, ma non la meno importante, la rinuncia ad uno stato sociale così da rendere deboli le reti di sicurezza sociale e favorire l’accettazione di lavori precari e flessibili. Le politiche che insistono sulla sicurezza come diritto dei cittadini, le politiche che si richiamano all’idea di tolleranza zero, costituiscono allora uno dei pochi scenari in cui lo stato può ancora rendersi visibile. Bauman ci dà una bella immagine di questo processo quando dice che «nel cabaret della globalizzazione lo stato si esibisce in uno spogliarello al termine del quale rimane con indosso lo stretto necessario: i suoi poteri repressivi». Le cosiddette politiche sicuritarie hanno potuto radicarsi, e trovare ampi e facili consensi popolari, in ragione del crescente e diffuso senso di incertezza che caratterizza la condizione di vita contemporanea. Basti pensare alle incertezze alimentate dal progressivo smantellamento dello stato sociale, dal declino della protezione sociale nei termini di previdenza e di assistenza. L’incertezza è dovuta anche ad una disoccupazione ormai strutturale, alla precarizzazione del lavoro, alle nuove forme contrattuali, ma anche ai modi in cui si richiede che il lavoro venga svolto. E altro ancora. Il cambiamento del modo di produrre è coinciso con quello che è stato indicato come processo di individualizzazione. Vuol dire che, dentro e fuori i posti di lavoro, si è diventati e si è ritenuti responsabili di se stessi, delle proprie azioni, dei propri comportamenti e dei rischi che ci assumiamo e delle loro conseguenze. Significa che cresce sempre più la pretesa che quelli che sono dei problemi sociali vengano affrontati come dei problemi individuali, e che vengano risolti in solitudine, con sforzi individuali. Le sconfitte, per esempio il non trovare lavoro, andrebbero attribuite solo a se stessi, alla propria indolenza, alla propria goffaggine o ad altro ancora. Il cittadino ideale nel cosiddetto mondo globale è proprio colui che in una lotta solitaria sa adeguarsi alle nuove forme del lavoro e che, tacendo la propria sofferenza, sa essere capace di provvedere alle proprie necessità (al massimo anche per quelle dei familiari) e che sa essere indipendente dal sostegno della collettività o dell’assistenza pubblica. L’atteggiamento solidaristico, che è stato fondamentale per la nascita delle organizzazioni operaie, non sembra più costituire una strategia razionale. I legami sociali e comunitari, ma anche quelli familiari, sono sempre più fragili e tendono a disgregarsi. I legami di fiducia in particolare sono sempre più rari. Il legame con gli altri è visto come una limitazione della propria libertà. I sentimenti di incertezza e di paura rimangono dunque una esperienza individuale, vissuta in solitudine, non condivisa con gli altri. Però nello stesso tempo accade che riusciamo in qualche modo a dare una rappresentazione pubblica, anche se distorta, ai nostri timori. Trasformiamo in un certo qual modo la complessità e l’incomprensibilità della nostra situazione in qualcosa di semplice: un problema di ordine pubblico, un problema di sicurezza del cittadino. Diamo cioè una forma all’origine delle nostre incertezze indicando qualcosa che sembra minacciarci in modo visibile: la criminalità, la delinquenza giovanile, gli stranieri e via dicendo, qualcosa che ci pare che potrebbe essere controllabile. Simone Weil direbbe che ci lasciamo sedurre dalla nostra immaginazione impedendoci così un rapporto diretto con la realtà del mondo. E questo succede in particolare modo quando i legami tra gli individui sono fragili, quando ognuno sta nel proprio isolamento. È necessario che, dentro e fuori i contesti di lavoro, si corra il rischio di ricominciare a fidarsi di qualcuno per cominciare a parlare partendo da sé (una pratica cara al movimento delle donne), dalla propria esperienza. Per poter dire che cosa ci sta capitando, le nostre paure, le incertezze, la vergogna, il risentimento, ma anche la paura – umanissima – di chi ci è straniero. È necessario rischiare di navigare faticosamente controcorrente e fidarsi di qualcuno per interrompere quel processo di individualizzazione che ci contrappone gli uni agli altri nella nostra solitudine sofferente.

Pubblicato il

05.12.2003 04:30
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