Si fa presto a dire apriamo le frontiere e liberalizziamo i mercati. Questa parola magica, che l’economia sventola con orgoglio da anni, nasconde sacrifici pesanti persino per settori importanti dell’industria americana. È il caso di quello siderurgico, che sta vivendo uno dei periodi più neri della sua storia.
I lavoratori sono orgogliosi del loro passato. «Noi abbiamo costruito New York» grida una manifestante mostrando l’immagine simbolo dell’America: la statua della libertà. Ma proprio la libertà di importare ed esportare li sta adesso mettendo alle corde.
Come altri 25 mila colleghi anche lei è venuta la settimana scorsa a Washington per chiedere a Bush di intervenire. «Non chiediamo protezione, ma giustizia» gridavano uno dopo l’altro i deputati e i senatori democratici e repubblicani che si esprimevano davanti ad una folla di operai, operaie, pensionati e pensionate. I manifestanti erano giunti con centinaia di bus un po’ da ogni parte del paese, ma soprattutto dagli stati industriali del nord, dove la crisi si fa sentire di più.
Avevano risposto all’appello di «Stand up for steel» (fai qualcosa per l’acciaio), una coalizione della quale fanno parte le industrie leader del settore e «United Steelworkers of America» (Uswa), il sindacato dei metallurgici, che da mesi mobilita i suoi iscritti organizzando incontri dibattiti o manifestazioni.
Chiedevano a Bush di frenare la continua caduta dei prezzi imponendo tariffe del 40 per cento sull’acciaio importato per un periodo di 4 anni perché, affermano, il commercio libero è un commercio ingiusto, che mette alle corde la produzione americana. Dal 1997 ad oggi, 31 acciaierie americane hanno fatto bancarotta e soppresso quasi 46 mila posti di lavoro. Adesso il settore conta circa 190 mila addetti, contro i 450 mila di 20 anni fa. Contemporaneamente il consumo ha continuato ad aumentare e i prezzi a scendere a causa dell’eccesso di produzione mondiale, che è valutata a circa 300 milioni di tonnellate.
Le acciaierie americane, spesso di medie dimensioni, fanno fatica a far fronte a questa concorrenza, che si è fatta sentire con più forza soprattutto dopo la crisi asiatica della fine degli anni ’90. Negli ultimi anni, milioni di tonnellate di acciaio sono giunte in America da Asia, Russia, Unione europea, Turchia o Sudafrica, paesi con un eccesso di produzione. Bush ha ascoltato le suppliche dei metallurgici e quelle contenute in oltre 180 mila messaggi che in queste ultime settimane gli americani gli hanno inviato per perorare la causa dei lavoratori delle fonderie.
Applicando tariffe (variano tra l’8 e il 30 per cento per una durata di 3 anni) su molti prodotti d’importazione, Bush vuole raggiungere diversi obiettivi. Vuole inviare un segnale forte a questo settore strategico, in un momento particolare della storia americana. In questi mesi, l’industria bellica sta girando a pieno ritmo e ha bisogno di acciaio. L’America, soprattutto quella conservatrice, non vuole dipendere ancora di più dai mercati esteri, per paura che un giorno questa possa rivelarsi una scelta pericolosa.
Così facendo però Bush ha deluso gli importatori d’acciaio, che nelle ultime settimane per voce di think tank conservatori come «Cato» o «Heritage Foundation» hanno messo in guardia contro i pericoli di un aumento delle tariffe: i prodotti americani rischiano di diventare più cari, quindi meno competitivi. Questo potrebbe minare la tanto attesa ripresa economica e creare più disoccupazione di quella che si vuole evitare, si legge nei loro studi.
Bush non si è lasciato deviare. Non ha perso la sua fede nel liberalismo, ma ha ceduto per ragioni più semplicemente politiche. Questo è un anno elettorale per gli Stati Uniti. In novembre si rinnoveranno tutta la Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato. Bush sa benissimo di essere stato eletto grazie ai voti di alcuni stati del nord, tradizionalmente operai e quindi democratici.
Ha ottenuto i loro voti perché ha promesso di aiutarli nella campagna contro l’acciaio d’importazione. Adesso deve pagare la fattura e nello stesso tempo cercare di aiutare i candidati repubblicani, che, non a caso, si sono schierati con i lavoratori, anche se la loro fede, come quella di Bush, è per il libero mercato.
Lo fanno perché sanno come è pesante l’aria che si respira tra i lavoratori delle acciaierie della Pennsylvania, del Michigan o della West Virginia. La chiusura di grosse fabbriche sta mettendo in pericolo la protezione sociale e pensionistica dei lavoratori, ma soprattutto dei sempre più numerosi ex lavoratori e pensionati dell’acciaio, che viene garantita sulla carta dagli ex datori di lavoro.
Questa conquista era stata ottenuta in passato dai sindacati al tavolo delle trattative, ma nessuno allora pensava che un giorno i pensionati sarebbero stati così tanti. È questo costo e non il livello dei prezzi – dicono gli europei – la vera causa del problema americano. Adesso se le fabbriche chiudono la protezione viene a cadere. Questo spiega come mai la settimana scorsa in piazza a protestare c’erano anche loro, gli anziani. «Non ero mai venuta a Washington» ci confida una di loro giunta dalla West Virginia per chiedere a Bush di fare qualcosa al più presto. I sindacati vorrebbero che fosse lo Stato, magari attingendo alle tariffe doganali, ad accollarsi questi costi sgravando le imprese e rendendo più sicuro il futuro degli affiliati. È comunque una conquista ben difficile da ottenere in un paese che difende il meno Stato.
Bush ha introdotto le tariffe pur sapendo di deludere le aspettative dell’Unione europea (Ue) e di tanti altri importanti partner commerciali, come la Cina, il Brasile, la Russia e l’Ucraina. Romano Prodi aveva scritto recentemente a Bush per invitarlo a non creare barriere, che di fatto renderanno impossibile l’esportazione di 4 milioni di tonnellate di prodotti siderurgici europei verso gli Stati Uniti. Bush non lo ha ascoltato e ora c’è il pericolo che le difficoltà americane rimbalzino in Europa.
Per questo, l’Unione europea ha deciso di fare appello all’Omc (organizzazione mondiale del commercio). «Sporgeremo denuncia a Ginevra contro questa chiara violazione delle regole dell’Omc e adotteremo tutte le misure necessarie per salvaguardare il nostro mercato» afferma Pascal Lamy, il commissario europeo per il commercio, secondo il quale «la decisione di riprendere la via del protezionismo fa fare un passo indietro al sistema del commercio mondiale e non risolve i problemi, ma piuttosto li aggrava». E ora anche il Giappone intende seguire nella protesta all’Omc l’Unione europea.
Ben diversa la posizione dei sindacati americani. «Questa è la prima volta che vediamo uno spiraglio di luce profilarsi alla fine di un tunnel lungo e buio» ha affermato il presidente dell’Uswa, Leo Gerard, che comunque non ha ottenuto da Bush tutto quello che voleva. Ha già in mente il prossimo passo. «Presto ci faremo vivi in parlamento con una legge per evitare che i diritti sociali e previdenziali dei lavoratori dell’acciaio siano sacrificati sull’altare del commercio sleale» ha concluso il sindacalista. La battaglia quindi è appena cominciata.
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