Ex ILVA, ora Acciaierie d’Italia, una storia infinita che rischia di finire nel peggiore dei modi: la chiusura dello stabilimento siderurgico più grande d’Europa, due milioni di metri cubi nel cuore di Taranto. L’ultimo disastro nella fabbrica dell’acciaio e della morte è datato 7 maggio, quando si rompe una tubiera per anomalie al sistema di raffreddamento dell’altoforno 1, quello che era stato chiuso nell’ambito dell’inchiesta della magistratura tarantina nominata ‘Ambiente svenduto’ e riaperto solo pochi mesi fa. Un getto di gas prende fuoco a contatto con il materiale incandescente, provoca l’emissione di fumi e costringe alcuni operai a gettarsi nella vasca della loppa (sottoprodotto della ghisa) per mettersi in salvo. Per fortuna l’incidente non si trasforma in tragedia, solo piccole ustioni e contusioni. Il ritardo nelle operazioni di salvataggio dell’altoforno, che consiste nella rimozione di tutto il materiale posto all’interno, genera l’ennesimo conflitto tra la direzione che risponde agli ordini dei due commissari governativi e la magistratura. Fatto sta che ora l’impianto è pesantemente compromesso, l’altoforno ovviamente sequestrato e per oltre 4.000 operai è stata annunciata la cassa integrazione. Questa situazione compromette anche la trattativa in atto tra gli emissari del governo e la società azera Baku Steel per la vendita delle Acciaierie d’Italia. Noi abbiamo messo tutto in sicurezza, mette le mani avanti la direzione. Infatti, passano pochi giorni dall’incendio nell’altoforno 1 e appena una settimana dopo, mercoledì 14 maggio, arriva un nuovo incidente, questa volta provocato da una fuga di gas nell’acciaieria 2. Sono 13 anni che i lavoratori e i cittadini di Taranto vivono appesi nel limbo, tra crisi, denunce, morti e tumori. Messi finalmente fuori, anzi dentro, in galera, i Riva, è arrivato lo Stato che ai Riva aveva svenduto l’ILVA, poi gli indiani dell’Arcelor Mittal, infine il commissariamento e l’amministrazione straordinaria. Gli interventi che dovevano essere fatti per bonificare gli impianti e un territorio devastato dalla fabbrica dei tumori non sono stati realizzati se non in minima parte, della decarbonizzazione della produzione con l’introduzione dei forni elettrici meno inquinanti si è solo parlato, mentre la realizzazione di due forni elettrici richiederebbe un lavoro di tre anni. A pagare sono i lavoratori e i cittadini, i primi falcidiati dalla cassa integrazione, molti spinti a licenziarsi e fuggire da Taranto in cerca di una vita migliore, i secondi avvelenati dalle emissioni inquinanti che sono diminuite solo perché la produzione è crollata, da 10,5 milioni di tonnellate annue d’acciaio a un obiettivo, ormai irraggiungibile dopo l’ultimo disastro, dimezzato. Lo Stato continua a buttare soldi senza un progetto serio di risanamento e rilancio della produzione d’acciaio, con i privati che hanno fatto il loro comodo e vogliono continuare a farlo in futuro, delegando allo Stato i prezzi di una ripartenza seriamente compromessa. Con il risultato che ciclicamente il conflitto riesplode in città, non solo e non tanto contro l’inerzia dello Stato e l’ingordigia padronale, quanto tra i cittadini esausti che chiedono la chiusura dello stabilimento e i lavoratori che difendono quel che resta del loro salario e del loro futuro, mentre i loro figli continuano a morire di cancro. L’acciaio era una delle voci più importanti del PIL italiano, una voce attiva dell’import-export, ma ora soffre della crisi mondiale dell’auto e degli elettrodomestici e dell’implosione dell’ex ILVA. Tuttora sono diecimila i dipendenti diretti, tra Taranto, Genova, Novi Ligure e Racconigi e ottomila gli indiretti. Per il governo Meloni l’obiettivo è la vendita agli azeri, disposti a sborsare, ma prima dell’ultimo incidente, un solo miliardo quando, per rimettere lo stabilimento in condizione di produrre in modo pulito ce ne vorrebbero quattro o cinque. Dunque, dicono i sindacati, sarebbe più logico seguire la strada di una nazionalizzazione completa a termine, per poi rimettere in vendita l’impianto “ripulito”. E Taranto ripulita. Taranto è una splendida città pugliese bagnata da due mari, il Mar Piccolo e il Mar Grande. Sul suo skyline spicca l’altissimo camino azzurro di una fabbrica che per decenni ha portato la vita e la morte di chi ci abita e di chi ci lavora. |