L’Est può attendere

La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro nell’industria metalmeccanica della Germania orientale si è conclusa, dopo oltre un mese di agitazioni, con un’innegabile sconfitta per il fronte sindacale, isolato in un’impari lotta contro le imprese, il mondo politico e la quasi totalità dei mezzi d’informazione. Gli scioperi nelle fabbriche dei nuovi Länder, oltre a confermare l’autonomia politica del sindacato di categoria, IG Metall, sono serviti però a confrontare l’opinione pubblica tedesca con le grandi differenze sociali tuttora esistenti tra Est e Ovest a tredici anni dalla riunificazione. In questo senso il diverso orario di lavoro è solo uno dei tanti aspetti di un muro che non sembra voler crollare. Mentre i colleghi dei Länder occidentali hanno ottenuto, già dal 1995, una settimana lavorativa di 35 ore, gli operai metalmeccanici dell’ex Ddr lavorano mediamente 38 ore alla settimana e questo anche in grandi aziende (come la Volkswagen, tanto per fare un esempio) che delle 35 ore hanno fatto da anni addirittura un modello da esportare all’estero. Ma non all’Est, evidentemente. Dopo oltre un mese di trattative infruttuose sulla riduzione della settimana lavorativa, con gli imprenditori contrari ad ogni forma di mediazione, e in seguito ad un referendum consultivo, gli aderenti all’IG Metall della Sassonia, del Brandeburgo e di Berlino hanno deciso di incrociare le braccia. Gli effetti dello sciopero non si sono fatti attendere: nel giro di pochi giorni molti stabilimenti di importanti industrie automobilistiche (tra cui l’Audi, la Bmw, e la Volkswagen appunto) hanno dovuto bloccare la produzione anche all’Ovest per la mancanza delle abituali forniture dal Brandeburgo e dalla Sassonia. Una novità assoluta per la storia dell’industria tedesca post-unitaria. Una novità che rischiava di fare scuola. Contro quella che Klaus Zwickel, segretario dell’IG Metall, ha definito una «battaglia democratica per il mondo del lavoro tedesco» hanno fatto immediatamente quadrato non solo i datori di lavoro e i partiti conservatori, ma anche importanti esponenti della maggioranza rosso-verde, oltre che quasi tutti i giornali e le televisioni. Un fronte vastissimo che, giorno dopo giorno, ha accusato la IG Metall di “estremismo”, “incoscienza” e di “totale mancanza di senso della realtà”, ha evocato lo spettro di drastici tagli occupazionali e ha minacciato di ridimensionare sensibilmente il piano industriale per i nuovi Länder. Alla fine tanta pressione ha dato i suoi frutti: i metalmeccanici occidentali, invece di solidarizzare coi propri colleghi dell’Est, come era sembrato possibile nei primi giorni dello sciopero, hanno ceduto alle paure alimentate dalla chiusura temporanea dei loro stabilimenti e, in parte, si sono rivoltati contro i vertici sindacali. Quella che poteva diventare una battaglia per i diritti a livello federale si è trasformata, per certi versi, in una spiacevole contrapposizione Est-Ovest. Prendendo atto di questi sviluppi Zwickel ed il suo vice Jürgen Peters si sono visti costretti a dichiarare fallito lo sciopero. Chi sulla questione delle 35 ore, sui diritti dei lavoratori in genere e sul futuro dei Länder orientali, avrebbe avuto voce in capitolo, ma ha taciuto, è il cancelliere Gerhard Schröder, uno che in passato era intervenuto più volte di prima persona nei conflitti sociali. Il secondo governo Schröder è nato fortunosamente, grazie proprio ai tanti voti raccolti all’Est, sulla scorta di promesse ben precise, lanciate in una campagna elettorale contrassegnata dalle enormi devastazioni provocate dalle alluvioni dello scorso agosto. Erano promesse che parlavano di un nuovo “Aufbau Ost” (una ricostruzione dell’Est), fatto di investimenti pubblici ed estensione dei diritti e non di ulteriore flessibilità. E invece ora che, proprio nella lotta dei metalmeccanici, il cancelliere avrebbe potuto giocare un ruolo di mediazione tra l’IG Metall e la Confindustria, proponendo un obiettivo temporale, magari di lungo termine ma preciso, per l’equiparazione degli orari di lavoro tra Est e Ovest, da Berlino non è giunto alcun segnale. Schröder ed il suo governo hanno preferito mantenere un profilo basso, unendosi al coro di chi accusava il sindacato di voler compromettere, con le proprie rivendicazioni, la lenta e faticosa ripresa dell’economia federale. Ma a guardare più da vicino il contesto socioeconomico dell’Est tedesco, si comprende come la questione dell’orario di lavoro sia solo un tassello di un mosaico ben più vasto, di cui gli artefici, sia nel mondo imprenditoriale che in quello politico, non intendono disfarsi con tanta facilità. Dal 1990 in poi i Länder orientali sono serviti infatti da laboratorio per il capitalismo tedesco. Un laboratorio dove diluire, quando non sospendere del tutto, i diritti vigenti per i lavoratori dell’Ovest, un terreno vergine dove applicare le ricette iperliberiste di derivazione anglosassone, prima di estenderle a livello federale. È infatti nei nuovi Länder che si sono sperimentate su vasta scala le nuove forme di precariato e che la flessibilità è assurta, prima che altrove, a legge del mercato del lavoro. Con la scusa di riattivare l’economia dell’intera regione dopo decenni di “letargo da pianificazione socialista”, e col ricatto di una disoccupazione che in tante realtà superava, e continua a superare, la soglia del 20 per cento, gli imprenditori tedeschi, con la complicità dei governi di Bonn prima e di Berlino poi, hanno tentato di fare della Germania orientale, in parte riuscendovi, una zona franca dai diritti. Le gabbie salariali, che dovevano essere una misura transitoria per attirare nella ex Ddr investitori tedeschi e stranieri, a 14 anni dalla caduta del Muro sono ancora intatte, anche se di investitori, specie internazionali, ne sono venuti meno di quanto si sperasse. Salari e stipendi dei tedeschi dell’Est equivalgono, tuttora, ad appena il 78 per cento di quelli dei loro connazionali che vivono a Ovest. I contratti nazionali, nel settore privato come in quello pubblico, continuano a prevedere, ad ogni rinnovo, condizioni e aumenti differenziati per le due Germanie. E intanto, mentre il drammatico tasso di disoccupazione mostra, impietoso, tutti i limiti del laboratorio “Est”, nessuno riesce a togliere dalla testa dei suoi abitanti di essere cittadini di serie B. Non deve stupire quindi che, dal 1990 ad oggi, oltre un milione e mezzo di “Ossis” (così li chiamano con disprezzo a Ovest) si siano trasferiti nei vecchi Länder in cerca di fortuna. L’“Aufbau Ost” può aspettare.

Pubblicato il

04.07.2003 04:00
Tommaso Pedicini