L'America, così vera, così finta

Per le incomprensibili logiche della distribuzione cinematografica svizzera il film “Promised Land”, che rappresenta di fatto il debutto nella fiction del ticinese Michael Beltrami e che era in Concorso al Festival di Locarno lo scorso anno, è solo ora in programmazione in Ticino (al Corso di Lugano). Frutto di un tormentato lavoro di scrittura, “Promised Land” (prodotto pure in Ticino, da Amka) è ispirato al personaggio reale di Dennis Woodruff, un attore che vuole a tutti i costi sfondare a Hollywood e che si è inventato eccentriche forme di autopromozione con però scarsissimi risultati. Woodruff nel film di Beltrami diventa Ethan Wildwood, ben interpretato da un convincente Chad Smith, attore teatrale al debutto in un ruolo da protagonista al cinema. Wildwood, stufo di consumarsi nel sogno hollywoodiano, accetta l’incarico di uno scalcinato produttore e gira gli Stati Uniti alla ricerca di immagini dell’America reale. È così che si imbatte in una cantante, Vicky Dalton (interpretata da Ruth Gerson, che è realmente una folksinger), che pure gira gli Usa alla ricerca della figlia scomparsa. È l’incontro con Vicky e con la piccola Norma (interpretata dall’emergente star Lalaine) che costringe Wildwood a fare finalmente i conti con la realtà. In “Promised Land”, piacevole road movie di buona fattura, che sempre si confronta con l’epopea western, molti piani si intrecciano, dalla riflessione sul cinema ad una più esistenziale. Ne parliamo con il regista Michael Beltrami. Michael Beltrami, il percorso fatto per arrivare a girare “Promised Land” e a presentarlo poi in Concorso a Locarno 2004 è stato molto lungo e tormentato, in particolare nella raccolta dei mezzi finanziari e nella stesura della sceneggiatura. Alla fine quel percorso ha corrisposto alle attese iniziali? Quando ho iniziato questa avventura non avevo delle aspettative particolari, anche per non correre il rischio di rimanere successivamente deluso. Ho cercato di interpretare l’avventura di questo film con lo spirito del buon artigiano: a cominciare dal lavoro sulla sceneggiatura, che ha subito un lungo processo di riscrittura anche per tenere conto dei condizionamenti dettati dal budget. Alla fine mi è mancato circa un terzo dei soldi di cui avrei avuto bisogno per realizzare la sceneggiatura originaria. In definitiva però questo non è stato un male: perché l’obbligo di rielaborare la sceneggiatura mi ha portato ad un’ultima stesura, quella definitiva, che corrisponde in sostanza meglio al film che è nelle mie corde. La primissima sceneggiatura avrebbe comportato dei ritmi più americani, ne sarebbe nato un film meno riflessivo. Nel film che ho girato mi sono invece preso più tempo nel racconto per esplorare le ambientazioni che più mi interessavano: sono praticamente tornato al soggetto iniziale, con una storia più semplice. Rispetto a quel soggetto ho però abbandonato l’idea di far interpretare dal personaggio al quale mi sono ispirato, cioè Dennis Woodruff, il suo stesso ruolo: nel film che ho girato il protagonista, Ethan Wildwood, è sostanzialmente frutto della mia fantasia ed è interpretato dall’attore Chad Smith. Possiamo allora definire “Promised Land” un film americano dal respiro europeo? È una buona definizione se si intende per americano la cura del prodotto, della confezione, dei dettagli, ed europei il ritmo, la modalità narrativa: in questo senso sì, ho voluto fare un film americano dal respiro europeo. In che misura il budget, ricco sì se paragonato a quelli di cui comunemente dispone un regista ticinese, ma estremamente limitato nel contesto del cinema internazionale, ha condizionato le riprese e l’esito finale di “Promised Land”? Sarebbe ipocrita dire che il budget non è stato importante: lo è sempre, ma soprattutto quando si fa un film low budget come sostanzialmente è il mio. Per il regista il suo lavoro è infatti sempre una rincorsa a voler fare il film, a portare a termine il suo progetto. Ho quindi da subito cercato di commisurare le ambizioni ai mezzi disponibili per non ritrovarmi a secco a metà strada, ma anche per organizzare bene una buona preproduzione negli Usa. Per la scelta degli attori (soltanto Ruth Gerson era sicura in partenza) mi sono preso tre mesi durante i quali ho cercato di fare un casting il più accurato possibile: ogni giorno ne incontravo 5 o 6 per diversi ruoli. In questi tre mesi ho potuto quindi lavorare molto con gli attori, compresi quelli che poi non avrei scelto, per provare le scene, per inventare nuove soluzioni, per metterne alla prova l’elasticità. Il casting è stato anche per me un processo formativo, durante il quale ho verificato la validità di molte soluzioni previste per il film. Questa cura nella preproduzione ci ha permesso di girare il film in sole quattro settimane, più una settimana addizionale soltanto con il protagonista per girare dei passaggi d’auto, necessari in un road movie. Il modo di procedere adottato ha permesso una buona compressione dei costi, contribuendo nel contempo alla qualità del prodotto finale. Il montaggio poi le ha preso quasi quattro mesi: c’è stata in questa fase quasi una riscrittura del film? In parte sì. Con la montatrice Ilaria Fraioli abbiamo infatti cercato di rompere una certa linearità che era ancora molto presente nella sceneggiatura, per avvicinarci il più possibile all’obiettivo di fare un film che giocasse molto con l’immaginario cinematografico, lasciando spazio ad esempio all’identificazione di luoghi che rimandassero al cinema di genere o giocando sull’ambiguità fra realtà e fantasia. Provenendo dal documentario ci tenevo a prendere delle situazioni reali per trasformarle attraverso la fantasia in finzione, assecondando il protagonista del film, che vive sempre in bilico fra queste due dimensioni. Sono contento di aver potuto sviluppare e approfondire questa ambiguità al montaggio: effettivamente è in questa fase che siamo arrivati a dare allo spettatore la possibilità di interpretare il film attraverso l’ambiguità dei due livelli, quello della realtà e quello della fantasia. Su questa strada il film gioca anche molto al confine fra i generi, tra documentario e fiction. Sì, proprio perché il pretesto narrativo del film è l’incarico che il protagonista riceve dal suo amico produttore di documentare degli spaccati di vita americana. Inevitabilmente dunque i generi s’incrociano. Ciò che m’interessava era mettere in contrapposizione il mondo un po’ finto di Hollywood, cioè il protagonista con il ruolo che s’è cucito addosso, con situazioni vere, reali, in pieno contrasto con il mondo irreale del cinema che racconta sì la realtà, ma attraverso la lente deformante del suo immaginario. Infatti nel film il ritorno a Hollywood non è quello che ci si aspetterebbe: del Sunset Boulevard non c’è nemmeno l’ombra. No, è un approdo ad un mondo a parte di emarginati in una sorta di girone dantesco. Anche qui ho giocato sull’ambiguità dei generi. Circa a metà film infatti ci sono delle immagini documentaristiche di emarginati veri, filmati in un edificio abbandonato. Alla fine invece, ad Hollywood, arriviamo alla finzione dell’emarginazione, con immagini girate su un set allestito in un ex albergo, l’Ambassador Hotel, che serve soltanto a produzioni cinematografiche e con attori veri che interpretano la parte di emarginati. Qual è la sua visione dell’America? È messa male se il cow boy per eccellenza John Wayne oggi diventa il suo Ethan Wildwood, un cow boy che non sa più dove sia l’ultima frontiera e continua a peregrinare senza meta e senza costrutto. Diciamo che questo è un cowboy che si rifà alla finzione, intrappolato nel suo sogno infantile di diventare John Wayne. Non è che attraverso lui volessi dare la mia visione dell’America oggi. Lui cerca di fuggire a tutto ciò che per lui rappresenta un fallimento, cioè la facciata, la parte finta della sua vita. Lui cerca finalmente una vita vera: il suo problema è che è talmente contaminato dall’esperienza hollywoodiana da dover fare tutto un percorso all’interno del film prima di potersi togliere la pelle che si trova addosso e tornare nella realtà. Sull’America, ma anche più in generale, io ho un amore particolare per i personaggi emarginati, quelli che hanno meno possibilità di esprimersi. Ed è vero che ciò che più mi colpisce negli Usa è sempre il contrasto fra l’estremo benessere da un lato e una diffusissima povertà dall’altro. Una povertà che nelle grandi città si vede tutti i giorni nei panni dei barboni, e che lontano dai centri è forse meno scioccante ma non meno presente: la si ritrova ad esempio in certi personaggi un po’ eccentrici che compaiono anche in “Promised Land”. In definitiva oggi vivere negli Stati Uniti non m’interesserebbe più. Con questo film però non ho voluto nemmeno puntare il dito contro un certo cinema hollywoodiano, che in realtà anzi mi affascina. Proprio perché gioca sempre con l’ambiguità fra realtà e finzione. “Promised Land” è stato accostato a “Paris Texas” di Wim Wenders. Ma mentre Wenders in quel film non metteva in discussione il mito americano, lei lo smitizza: il suo sguardo è assai più disincantato. “Paris Texas” è uno dei film che amo e che ho studiato come riferimento per “Promised Land”, perché impostando un film on the road non potevo non riguardarmelo. Credo anch’io che il mio sguardo sia più disincantato che quello di “Paris Texas”. Forse perché il mio modo di raccontare è un po’ più diretto, meno tra le righe. Forse perché ho voluto dare un’impostazione più chiaramente documentaria al film, avendo svolto anche un grande lavoro di ricognizione, di ricerca di situazioni, di atmosfere: prima di passare al discorso della fantasia ho voluto confrontarmi con la realtà, e questo nel prodotto finale certamente è rimasto. E forse perché Wenders ha molto curato l’estetica delle immagini, quando io ho cercato di “sporcarle” un po’ di più, anche perché in parte ho usato il video.

Pubblicato il

26.08.2005 03:00
Gianfranco Helbling