Avventurarsi sul scivoloso terreno delle mutilazioni genitali femminili è estremamente rischioso: c’è il pericolo da un lato di giudicare queste pratiche (che si presentano in luoghi e con gradi e modalità molto diversi l’uno dall’altro) come atti barbari e privi di significato di una cultura arretrata e inferiore; dall’altra di giustificarli e di minimizzarne le conseguenze sulla scorta di un relativismo culturale che tende ad ignorare la sofferenza del soggetto che le subisce. Incontrare la giovane senegalese Khady Khoïta è allora un’occasione per porre la questione sui suoi giusti binari. Lei stessa mutilata nel suo paese d’origine, il Senegal, Khoïta, giunta successivamente in Francia, ha fondato cinque anni fa e ora presiede la Rete europea per la prevenzione e l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili. Questo network, che lotta in particolare contro le mutilazioni e i matrimoni forzati ed è riconosciuto come Ong dall’Onu, raggruppa diverse associazioni in Europa per coordinarne il lavoro e migliorare così la salute e la vita quotidiana delle donne migranti. Sul terreno il lavoro consiste soprattutto nella sensibilizzazione, nella formazione e nell’informazione delle popolazioni migranti, degli autoctoni e delle autorità politiche. L’intervista che segue è stata raccolta lo scorso anno in occasione del Festival internazionale del film di Locarno, dove Khady Khoïta ha partecipato nel quadro del programma di sensibilizzazione sui diritti umani. Signora Khoïta, come ha deciso di impegnarsi nella lotta contro le mutilazioni genitali femminili? Mi sono impegnata su questo tema quando avevo vent’anni. Io stessa all’età di 7 anni sono stata mutilata e all’età di 13 anni e mezzo ho dovuto sposarmi nel mio paese d’origine, il Senegal. Giunta in Francia quando avevo 14 anni ho dovuto vivere con un uomo molto più anziano di me con il quale non condividevo una stessa concezione della vita. Poco a poco, crescendo in Francia, sono cambiata e mi sono chiesta perché dovessi vivere nell’oppressione e tacere, dovendo sempre fare quel che voleva lui e mai ciò che avrei desiderato io. Quando lei ha subito la mutilazione come l’ha vissuta? Come qualcosa di logico e ineluttabile o come qualcosa di profondamente ingiusto? Già a quel momento l’ho sentita come qualcosa di ingiusto. Ho provato un dolore che non dimenticherò mai, perché a 7 anni si è perfettamente coscienti di tutto ciò che ci accade. Ma d’altro canto era anche per me in qualche modo normale che ciò avvenisse. È soltanto uscendo dal Senegal che mi sono potuta liberamente interrogare su quanto mi era stato fatto, in particolare sul perché soltanto una parte della popolazione debba subire una simile mutilazione. Qual è l’impatto di questa pratica nell’immaginario collettivo della comunità? La mutilazione è per la donna la condizione necessaria per essere accettata nella società, nella comunità, nel villaggio, nel clan. A tutte quelle che la subiscono si dice che è necessaria affinché la donna possa essere pulita e pura, possa giungere vergine al matrimonio e rimanere fedele al marito e, infine, possa avere numerosi bambini. In altri termini la mutilazione genitale serve alla dominazione sessuale della donna: la donna non deve poter essere libera di gestire la sua sessualità. E per giustificare questa prassi ci è stato fatto un vero e proprio lavaggio del cervello sostenendo che la mutilazione genitale femminile è imposta dalla religione. Come viene usato l’Islam nel perpetuare le mutilazioni genitali? Io sono musulmana, e all’epoca credevo effettivamente che l’Islam imponesse queste pratiche. Ma in realtà si osserva che nei paesi in cui le mutilazioni vengono praticate non vi sono differenze fra musulmani, cristiani e animisti: tutti le fanno indipendentemente dalla religione. E d’altro canto l’Islam non esige la mutilazione genitale, che Maometto stesso non ha mai praticato alle sue figlie. Tanto più che ad esempio in Arabia Saudita, culla dell’Islam, questa pratica è sconosciuta. Ma gli uomini hanno approfittato del fatto che le donne non sapessero né leggere né scrivere per imporre loro la tesi che la mutilazione fosse comandata dall’Islam. Purtroppo oggi ci sono però molte donne che hanno imparato a leggere e a scrivere e che conoscono bene il Corano, ma che sono cadute in una sorta di fondamentalismo: esse si appellano di nuovo ad idee vecchie di cent’anni secondo cui le donne debbono essere sottomesse ed inferiori all’uomo. La nostra lotta mira invece a dire che la donna è complementare all’uomo e che, in termini di diritti umani, gli è uguale, cioè ha gli stessi diritti e le stesse opportunità. La nuova ondata islamista è un veicolo supplementare di diffusione delle mutilazioni? In certi paesi, non in tutti. Dipende molto dalle condizioni locali, non c’è sempre una correlazione diretta. Per una donna immigrata in Europa c’è però il problema che se vuole distanziarsi da questa pratica poi teme, se non rischia, di distanziarsi anche dalla sua comunità e di ritrovarsi quindi sola. Come porsi di fronte a questa doppia lealtà verso di sé e verso la comunità, la cultura, la famiglia? È proprio qui che il nostro lavoro diventa interessante. Perché è con le persone concrete appartenenti alle nostre comunità che dobbiamo confrontarci se vogliamo un cambiamento di mentalità. Dobbiamo far comprendere a queste donne ma anche agli uomini che si può porre fine a questa pratica nefasta continuando nel contempo ad amare la propria cultura e ad esserne fieri. È però necessario capire che le culture evolvono. In questo senso le donne europee sono per noi un esempio: esse si sono battute per avere oggi la libertà di cui godono, che non è stata loro regalata da un giorno all’altro. Per noi immigrate africane c’è in più l’occasione di conservare quanto di buono c’è nelle nostre culture d’origine per abbinarlo a quanto di buono c’è nelle vostre culture per poter vivere in armonia. Ma se voi non ci spiegate mai che cosa sono le vostre culture, non riusciremo mai a capirlo. È più facile combattere le mutilazioni genitali in Europa o nei paesi d’origine? Oggi vorrei tanto poter disporre dei mezzi finanziari per andare a combattere questa pratica sul terreno nei paesi d’origine. Perché è prima di tutto necessario fare un lavoro di sensibilizzazione e di costruzione della fiducia nella propria comunità, affinché le persone cui ci rivolgiamo capiscano che stiamo lavorando per loro e non contro di loro. Fare questo lavoro di base già in Africa è arricchente per tutte le persone coinvolte e aiuta a progredire molto rapidamente. Purtroppo oggi siamo ancora costrette a fare ricorso al volontariato. Benché molte Ong abbiano risorse enormi, non le investono nel lavoro di base, sul terreno: sono le piccole organizzazioni che vanno di villaggio in villaggio a sensibilizzare le popolazioni locali. Per questo chiediamo ai poteri politici di sostenerci. È vero però che lottare qui, in Europa, può essere molto difficile: perché quando si inizia questa lotta si viene esclusi dalla comunità. E le condizioni per fare il lavoro di base non sono molto diverse che in Africa: abbiamo pochissimi mezzi per un lavoro di sensibilizzazione enorme. Gli antropologi sostengono che, eliminando le mutilazioni genitali femminili, non si dovrebbe nel contempo perdere l’importanza del rito di passaggio che vi è collegato. Come conservare il rito eliminando quanto di doloroso e discriminante è insito nelle mutilazioni genitali? Stiamo proprio cercando di implementare dei riti alternativi. Tre anni fa in Kenya ad esempio è stata organizzata una grande cerimonia di tre giorni per tutte le adolescenti di un villaggio, durante la quale si è spiegato qual è la loro cultura, quali sono i valori fondamentali della vita e così via. Al termine della cerimonia ogni ragazza ha ricevuto un certificato. A me piacerebbe che riti alternativi di questo tipo venissero organizzati in Europa e che qui fossero gli anziani dell’Africa a raccontare alle adolescenti ciò che veramente è l’Africa, affinché non vada persa la memoria del continente: perché molte giovani africane che vivono in Europa non sanno assolutamente che cosa sia in realtà la loro cultura e subiscono delle pratiche dolorose seguendo l’arbitrio dei genitori. Ma bisogna anche considerare la realtà per quello che è: tranne che in pochi villaggi i riti legati alle mutilazioni genitali in verità sono scomparsi trent’anni fa. Oggi nella maggior parte dei casi si mutilano le bambine in un’età compresa fra gli zero e i sei anni senza che vi sia un rito o una cerimonia ad accompagnare questa mutilazione. Si dice soltanto che così suo marito sarà contento… È più difficile convincere il padre o la madre di una ragazza che non è il caso di mutilarla? Dipende dalle famiglie. In genere gli uomini non sanno come avviene una mutilazione genitale, perché, tranne eccezioni, nella maggior parte dei paesi sono le donne che la eseguono sulle ragazze. Ma quando gli uomini vedono esattamente cosa succede, allora è molto facile convincerli. Presso gli anziani il lavoro di persuasione è più difficile, in quanto è radicata la convinzione che una donna sia destinata al matrimonio e che senza mutilazione non troverebbe marito. Per questo è molto importante oggi il lavoro di sensibilizzazione anche sui giovani uomini.

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17.06.05

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