Ci sono voluti 30 anni perché il Cile cominciasse a “rivendicare” la figura del presidente Salvador Allende. Ma neanche i 30 anni che dividono il golpe del generale Pinochet, l’11 settembre del ’73, dalle celebrazioni previste per mercoledì 10 e giovedì 11 settembre 2003 in Cile sembrano essere bastati per chiudere l’abisso che allora si aprì fra i due Cile. Ricardo Lagos, il primo presidente socialista – un socialismo molto light, alla Blair per intendersi – che a partire dal marzo 2000 ha rimesso piede al palazzo della Moneda di Santiago e che sotto la dittatura di Pinochet fu arrestato ed esiliato, ha dovuto barcamenarsi. Spalleggiato e sospinto dal Partito socialista, aveva annunciato un discorso forte dalla Moneda in ricordo e omaggio ad Allende, di fronte alla massime cariche politiche, militari e religiose del paese. Ma è andato subito a sbattere contro il muro dei militari, che hanno fatto sapere per bocca del comandante in capo dell’esercito, il pur dialogante Juan Emilio Cheyre, che loro non avrebbero partecipato. Idem per i due partiti storici del pinochettismo, la Unión democratica independiente e la Renovación nacional. Nonostante le recenti prese di distanza dal vecchio macellaio “demente”, quando sentono parlare di Allende e dell’Unidad Popular i due partiti vedono ancora e sempre rosso. Ma, quel che è più rivelatore, opposizioni e riserve sono venute anche dal settore più di destra della Democrazia cristiana, attraverso una lettere di diniego del presidente del senato Andres Zaldivar, e dall’arcivescovo di Santiago, il cardinale Francisco Javier Errazuriz. Tanto più rivelatore e significativo in quanto la Dc, dopo aver invocato e appoggiato il golpe militare del ’73, si pose a partire dagli anni ’80 alla testa dell’opposizione al regime e, a partire dal ’90, fa parte integrante insieme al Partito socialista più alcuni partiti minori della Concertación por la democracia che si è alternata al potere in questi tredici anni. E in quanto la Chiesa cattolica cilena, dopo un’iniziale fuggevole appoggio al golpe militare, divenne con il cardinale di Santiago Silva Henriquez e durante i 17 anni della dittatura pinochettista il più deciso e duro avversario del regime. Per cui alla fine e salvo sorprese dell’ultima ora l’omaggio ad Allende e alle vittime della barbarie fascista scatenatasi l’11 settembre 1973 sarà relegato il giorno prima, mercoledì 10 settembre, sotto l’egida del ministro degli interni, il socialista José Miguel Insulza. Lagos si è riservato invece le celebrazioni del giorno dopo, giovedì 11 settembre, in cui farà un discorso alla Moneda centrato, ha anticipato, «su questi trent’anni e anche su quello che accadde quel giorno» ma che sarà soprattutto una riflessione sulla «democrazia perduta per entrambi i lati» e sulla «solitudine» nel momento supremo dei due presidenti cileni che preferirono il suicidio alla resa di fronte alla violenza, Salvador Allende e, ... nel 1891, José Manuel Balmaceda, con considerazioni finali su «quanto siamo avanzati e quanto ci resta da avanzare» a partire dal golpe del ’73. Le cerimonie prevedono anche altri atti simbolici, quali la riapertura dell’uscita del palazzo della Moneda sulla via Morandé – quella da dove uscì il cadavere di Allende e i suoi compagni che con lui resistettero fino all’ultimo e che sarebbero stati tutti uccisi –, una porta che i militari avevano fatto chiudere. Poi lo scoprimento di una lapide nel salone della Moneda in cui Allende, «pagando con la vita la lealtà al popolo», si uccise per non dare a Pinochet la soddisfazione di ucciderlo (come era già stato deciso). Poi il ribattesimo dello Estadio Chile, dove fu torturato e massacrato il cantautore Victor Jara, che si chiamerà Estadio Victor Jara. «Non sono io che devo rivendicare la figura di Allende. Non è il mio ruolo. Il mio ruolo come presidente è un altro. I presidenti non devono rivendicare figure. È la storia che rivendica. E anche castiga», ha cercato di giustificarsi Lagos. Ma al di là delle parole forti in apparenza, non riesce a nascondere la sua incapacità – o impossibilità – di “rivendicare” il nome, la figura, l’opera di Allende e del suo tentativo di portare “elementi di socialismo” in un sistema di “democrazia borghese” attraverso i suoi strumenti democratico-parlamentari. Di quell’uomo, di quel governo, di quel tentativo il Cile, trent’anni dopo, non è in grado di rivendicare nulla. Se non l’esempio estremo, umano ancor prima che politico, di dignità e di “lealtà al popolo” contro l’incessante e sfacciato terrorismo di stato promosso dall’esterno – gli Stati uniti di Nixon e Kissinger (e la Itt, la Kennekot e altre multinazionali a stelle e strisce) – e praticato all’interno – i fascisti di Patria y Libertad (ma non solo i fascisti) e i generali felloni e genocidi. Nonostante l’apparente revival di Allende cui si assiste in Cile – libri che escono a frotte, choccanti programmi televisivi tenuti per tutti questi anni chiusi negli archivi, inziative varie – in realtà quel che rimane dei tre anni del presidente Allende e del governo della Unità Popolare è praticamente niente. Questo è l’aspetto più amaro dell’anniversario dei trent’anni. Il golpe di Pinochet, e di coloro che lo hanno alimentato senza sporcarsi le mani di sangue, in questo possono loro sì “rivendicare” una vittoria (finora) pressoché completa. Non solo i Chicago boys del professor Milton Friedman, che con Pinochet e i militari a fare i cani da guardia, nei 17 anni dal ’73 al ’90 poterono fare del Cile il loro laboratorio sperimentale – ben prima della “rivoluzione conservatrice” della signora Margareth Thatcher in Inghilterra e del presidente Ronald Reagan negli Stati Uniti –, ebbero mano libera per applicare le loro brutali teorie economico-sociali. Quel modello è rimasto praticamente intatto – salvo qualche maquillage per renderlo un po’ meno disumano – nei 13 anni dal ’90 a oggi sotto i governi di centro-sinistra della Concertación por la democracia. E il Cile è ancor oggi, pure in tempi di crisi generale dell’America Latina, preso a modello di una “sana” economia neo-liberista. Anche sul piano politico il Cile appare ancora oggi una democrazia a sovranità limitata, legato e intrappolato della più perversa eredità lasciata da Pinochet e dai suoi accoliti, che sono sicuramente dei criminali ma non sono stupidi. Le Leyes de amarre, che in castigliano significano leggi di ancoraggio ma anche leggi truffa, sono ancora lì. Tutte. Da quella che impedisce al presidente della repubblica e al potere civile di nominare e revocare i comandanti delle forze armate, a quella che dà un potere esorbitante al Consiglio per la sicurezza nazionale infarcito di militari; da quella che sancisce un diabolico sistema elettorale che impedisce tutt’ora al Partito comunista – che una volta era il più forte dell’America latina – di avere un solo seggio in parlamento, a quella che consente la designazione ad personam e a vita di senatori non eletti in numero tale da impedire ogni possibile revisione della mefitica costituzione pinochettista del 1980. Anche, e di conseguenza, sul piano della giustizia per le oltre 3 mila vittime ufficiali – in realtà furono molte di più – il Cile è ancora lontano anni luce. Lagos non può – e forse neanche vuole – permettersi qualcosa di simile a quello che sta facendo in Argentina il presidente Nestor Kirchner. L’altra oscenità giuridico-morale della Legge di (auto)amnistia che Pinochet impose per tutti i crimini commessi dal ’73 al ’79, gli anni degli abusi più atroci, è ancora lì. Un certo numero di killer e torturatori sono sotto processo o sotto inchiesta, qualcuno è perfino stato condannato ed è in carcere. Ma nessuno osa toccare Pinochet che ancorché “demente” scorazza fra le varie sue ville sparse per il Cile e partecipa loquace ad atti di omaggio che i militari continuano periodicamente a rendergli (come quello dell’agosto scorso in cui celebrava i trent’anni dal giorno in cui Allende ebbe l’idea suicida di sceglierlo, in quanto sicuro della sua lealtà, per guidare l’esercito). Anche l’ultimo messaggio al paese di Lagos – come sempre ambiguo – sulla ferita aperta dei diritti umani e della giustizia, è stato percepito dagli organismi dei familiari delle vittime come una sorta di “impunità nascosta” offerta ai killer. I militari, in questi anni di democrazia formale, non hanno mai voluto né riconoscere le atrocità commesse (come è accaduto in Argentina) né collaborare sul serio alla “riconciliazione” alle varie commissioni costituite (e fallite). Non parlano dei 1’200 desaparecidos ufficiali, sono stati trovati i resti solo di 200. Degli anni di Allende e dell’Unità Popolare, che fu grandiosa e tragica e che suscitò enormi passioni politiche e umane in tutto il mondo, è rimasto poco o nulla nel Cile di oggi. Fino a poco tempo fa la sinistra non solo non poteva ma neppure voleva “rivendicarli”, soffocata oltre che dalla repressione scientifica e selvaggia anche da un oscuro senso di colpa per il proprio fallimento. Oggi il Partito socialista comincia di nuovo a richiamarsi ad Allende e dice che l’immagine del presidente suicidatosi alla Moneda farà da sfondo alla sua prossima campagna elettorale. Anche il Partito comunista, che dell’Unità Popolare fu l’anello pervicacemente e inutilmente più moderato, si richiama ad Allende, ma – per via delle sue ripetute crisi interne e del perverso sistema elettorale – conta ormai pochissimo nello scenario politico cileno. Di Allende resta la statua fatta erigere qualche anno fa sulla Plaza della Constitucion, davanti alla Moneda; la lapide sulla tomba di famiglia degli Allende Gossens nello splendido Cimitero Generale di Santiago, dove il corpo fu riportato nel ’90 dopo essere rimasto dal ’73 occultato in una tomba sotto altro nome a Viña del Mar; la Fondazione e il Museo de la Solidaridad Salvador Allende inaugurato dopo il ’90 in uno storico palazzo di calle Herrera, nel centro di Santiago. Poi restano l’esempio di dignità fino alla fine e la memoria. Troppo poco. Anche se per i tempi lunghi della Storia trent’anni sono niente.

Pubblicato il 

05.09.03

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato