Il grande magazzino Jelmoli è un crocevia di storie. La popolarità dei grandi magazzini iniziò in Inghilterra ed esplose in tutta Europa a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Questi templi del consumo, dove il cliente trovava una vasta gamma di prodotti in un unico spazio, erano una novità rivoluzionaria per l’epoca: accessibili, innovativi e capaci di attrarre un pubblico agiato piuttosto eterogeneo. Per questo si diffusero anche in Svizzera. L’apertura di questi spazi, che divennero inizialmente dei punti di riferimento per la borghesia urbana, fu promossa molto spesso dal settore bancario e finanziario. Tra i primi grandi magazzini svizzeri si possono annoverare, a Zurigo, quello della ditta Julius Brann, aperto nel 1896, e lo Jelmoli della Bahnhofstrasse che diventò un vero e proprio grande magazzino soltanto a partire dal 1899. Fondato da un ebreo di origine italiana Quando Giovanni Pietro Guglielmoli arrivò a Zurigo nel 1833, decise di farsi chiamare Hans Peter Jelmoli. All’epoca il nome italiano non si addiceva a chi voleva fare buoni affari nella Svizzera tedesca. Jelmoli era originario di un paesino del Piemonte non lontano dal confine con il Locarnese. Si trasferì ancora giovane a Zurigo per lavorare alle dipendenze della famiglia Ciolina, attiva nel commercio dei tessuti. Poco tempo dopo aprì il suo primo negozio dove venivano venduti tessuti, modelli e moda provenienti da Milano e Parigi. Il fondatore non visse abbastanza per vedere la crescita incredibile dell’azienda. Morì nel 1860 e nel 1899 Jelmoli si trasferì in un nuovo enorme edificio in vetro sul modello dei grandi magazzini parigini nel centro di Zurigo. Il boom arrivò però qualche anno dopo, quando Jelmoli cominciò a vendere a prezzi fissi, un’innovazione per l’epoca, e a consegnare la merce direttamente a casa. L’innovazione non sempre paga. Hans Peter non riuscì, per sua fortuna, a vedere neanche la crociata antisemita dei piccoli commercianti zurighesi contro i grandi magazzini. La crisi degli anni Trenta colpì in misura pesante la piccola distribuzione locale che si mobilitò contro i giganti della vendita, tra cui Jelmoli, in mano a persone di origini ebraiche. Si batterono per farli chiudere e, pur fallendo, riuscirono comunque a bloccarne l’espansione fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Tra consumi e colonialismo Nel 1940, nel clima tossico di quegli anni, la famiglia decise di vendere l’azienda all’editore Ringier. L’ascesa del marchio continuò però inarrestabile. Jelmoli crebbe inesorabilmente e si espanse in tutta la Svizzera: alla fine degli anni Ottanta, la catena di grandi magazzini contava più di 5.000 dipendenti in oltre 230 sedi in Svizzera. Sabine Gisiger, regista del documentario Jelmoli – Biografie eines Warenhauses, presentato alla 60esima edizione delle Giornate cinematografiche conclusasi ieri, attinge a piene mani a un archivio aziendale straordinario soprattutto (ma non solo) di quegli anni di fortissima espansione, quando Jelmoli era sinonimo di grande qualità, prestigio e di grande cura nei confronti degli spazi espositivi. Gisiger nel suo racconto non dimentica chi ha reso possibile tutto questo, ovvero le lavoratrici e i lavoratori della vendita. Nel film compaiono a più riprese commesse, impiegate, tecnici, responsabili dello spazio espositivo. Tutte e tutti accomunati dall’orgoglio di aver lavorato per un marchio rispettato e molto attento alla propria immagine. Un marchio le cui vetrine, allestite da abili mani, erano spesso un vero spettacolo per gli occhi. Una vera e propria attrazione della Bahnhofstrasse di Zurigo. Jelmoli prestava molta attenzione allo stile, al design, all’estetica. Come molti altri marchi svizzeri, questo gigante della vendita ha contribuito a costruire un immaginario coloniale che tuttora appare difficile da scalfire. I prodotti che arrivavano da più lontano erano sempre accompagnati da rappresentazioni stereotipate, esotizzanti e denigranti dei popoli extraeuropei. Il documentario ha il merito di farci entrare anche in questo mondo. Di farci vedere come l’ideologia coloniale occidentale, forte anche in Svizzera, fosse anche parte integrante della società dei consumi. |