Quando la bandiera a stelle e strisce sventolerà sul palazzo presidenziale di Baghdad, può darsi che dalla frontiera irachena uscirà qualche furgoncino carico di barili di petrolio, destinazione Roma. Sarà il “presente” del protettore nordamericano al suo sherpa Silvio Berlusconi, prodigo di basi, spazi aerei e servigi al padrone del mondo. Il più affidabile degli sherpa, se si considera Tony Blair per quel che effettivamente è, un dipendente di rango di George W. Bush. Non per peso specifico ma per subalternità, un raffronto impertinente si impone: il Cavaliere di Arcore ha manifestato un grado di fedeltà alla politica bellica statunitense pari a quella dei nuovi “soci” della Nato, i paesi dell’Est – dalla Romania all’Ungheria – che pagano così a caro prezzo il biglietto d’ingresso nell’Impero del Bene. Siccome i servigi non bastano mai, è probabile che ai nostri alpini tocchi anche il lavoro sporco postbellico, il mantenimento della pax americana. Compito al quale i “nostri ragazzi” stanno già allenandosi nell’Afghanistan liberato dai talebani, ma non dalla guerra e da bin Laden.Quel che è sicuro, però, è che ben altre bandiere sventoleranno nei palazzi italiani prima dell’eventuale conquista dell’Iraq: quelle arcobaleno della pace e quelle bianche di Emergency, per segnalare la volontà dell’altra Italia, l’Italia della Costituzione che ribadisce la sua contrarietà alla guerra come strumento per risolvere le controversie internazionali. Qualsiasi sondaggio, compresi quelli commissionati da Silvio Berlusconi e dalla sua banda armata, fornisce lo stesso risultato, dice cioè che la stragrande maggioranza degli italiani è contraria alla partecipazione del paese alla guerra preventiva e infinita di Bush, a prescindere dal fatto che le bombe vengano o non vengano benedette dalle Nazioni Unite. Contro la guerra “senza se e senza ma” è la parola d’ordine che il 15 di questo mese porterà a Roma, come nelle principali città europee ed extraeuropee, centinaia di migliaia di uomini e donne di buona volontà. In Italia l’opposizione all’avventura bellica è guidata dalla società civile, dai movimenti cresciuti negli ultimi due anni che raccolgono un arco di forze che va dai social forum ai disobbedienti, all’associazionismo cattolico, al “ceto medio riflessivo” che anima i girotondi. In prima fila c’è la Cgil, che ha già annunciato la proclamazione di uno sciopero generale nazionale nel caso in cui la guerra dovesse comunque scoppiare e gli italiani non riuscissero a convincere il loro governo di destra a tenervisi fuori. Ci sarà anche la Cisl (ma non la Uil), ci saranno Rifondazione comunista, i Verdi e una parte dell’Ulivo, fino a prova contraria anche i Ds, trascinati su una posizione meno ambigua che in passato dalla discesa nel campo della politica dell’ex segretario della Cgil, Sergio Cofferati. Il fatto che tra il 90 e il 70 per cento degli italiani siano contrari alla guerra non sembra dissuadere Silvio Berlusconi, pur così sensibile ai sondaggi, dalla sua campagna. Persino all’interno dei partiti di maggioranza sta crescendo il fastidio per il surplus di fedeltà americana del Cavaliere e sono una sessantina i parlamentari di destra che prendono le distanze, almeno nell’ipotesi di una guerra non combattuta sotto l’egida dell’Onu. Berlusconi sa di avere gli strumenti per ripristinare l’ordine nelle sue fila e conta di creare lo scompiglio in quelle avverse, e cioè nell’ondivago Ulivo. Berlusconi, poi, sa anche quel che ogni serio politico dovrebbe sapere: la guerra cancella i diritti, alla vita per chi la subisce, al rispetto delle tutele costituzionali per i cittadini il cui stato entra in guerra. Per intenderci, la guerra metterebbe il silenziatore sulle battaglie sociali e sindacali, proprio nel momento di maggior aggressione liberista del governo contro i diritti del lavoro e la loro massima forma di garanzia, insita nello Statuto dei lavoratori. In guerra è più semplice criminalizzare il dissenso in nome del primato della difesa dello stato, sia pur esso uno stato aggressore e bellicista. Berlusconi è in difficoltà evidente all’interno, e questo aiuta a comprendere la sovraesposizione all’estero. Fino a trasformare il presidente del consiglio italiano in ambasciatore di Bush, prima convocato a Washington e poi spedito al Cremlino nel tentativo di convincere il riluttante Putin a non avvalersi della facoltà di veto presso il consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Berlusconi e il suo ministro Martino, che comunque una percezione del comune sentire degli italiani dovrebbero averla, hanno tentato di nascondere il sempre crescente coinvolgimento del nostro paese nella guerra infinita americana. In particolare, hanno presentato l’invio di mille soldati in Afghanistan (le avanguardie sono già a Kabul) come operazione di peace-keeping. Ma le bugie, com’è noto, hanno le gambe corte e quella di Martino è durata lo spazio di un giorno. A sbugiardare il governo italiano ha pensato il portavoce americano di Enduring freedom a Bagram, il colonnello Roger King: le azioni del contingente italiano saranno di combattimento. Toccherà agli alpini il compito non soltanto di difesa ma anche di attacco, per esempio per stanare dalle grotte afghane i militanti Al Qaeda. Dice infatti King: «La missione delle forze internazionali non è cambiata, è ancora essenzialmente di combattimento». Il nemico sempre più impalpabile è il terrorismo e l’obiettivo è la difesa della sicurezza interna americana. Che ogni guerra contro il sud del mondo, vieppiù se preventiva, aumenti i rischi di terrorismo e ingrossi le fila della disperazione suicida e omicida, è argomento che neppure ai bellicisti del Belpaese sembra interessare, se l’obiettivo è stare sempre e comunque dalla parte di chi vince la guerra e conquista i pozzi di petrolio. Come si tengono insieme queste due Italie, l’una a stelle e strisce e l’altra arcobaleno? La ricostruzione di un rapporto tra i palazzi della politica e la società civile dovrebbe essere il primo punto nell’agenda dell’opposizione, Ulivo in testa. Ma l’Ulivo, come sempre, è diviso, persino sull’opportunità di andare a un nuovo voto in Parlamento. Potrebbe sembrare incredibile che neppure sulla lotta contro la guerra sia possibile trovare l’unità nel centrosinistra. Invece, purtroppo, è comprensibile. Senza scomodare la storia delle socialdemocrazie e delle sinistre europee nel XX secolo, basti ricordare l’ultimo governo di centrosinistra italiano, quello della guerra non ancora preventiva, ma umanitaria, contro quel che restava della ex-Jugoslavia. L’allora presidente del consiglio, Massimo D’Alema, spiegò la scelta bellicista italiana con la necessità di portare il paese nel novero delle nazioni che contano, e che inevitabilmente vincono le guerre. Non resta che una consolazione, offertaci dall’Italia civile, quella che farà sventolare da tutte le finestre le bandiere della pace. Se saranno davvero tante, forse persino l’Ulivo – il Vaticano già l’ha fatto – sarà costretto a deporre le armi.

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07.02.03

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