Italia, senza diritti né rappresentanza

C'era una volta l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che tutelava i più deboli dalle prepotenze e dalle discriminazioni dei padroni. Funzionava così: se un lavoratore veniva ingiustamente buttato fuori dalla fabbrica o dall'ufficio e un giudice non riconosceva nel comportamento dell'imprenditore la giusta causa del licenziamento, una sentenza ordinava il reintegro immediato del lavoratore nel posto di cui era titolare, con le stesse condizioni e mansioni precedenti.

Oggi, in nome del mercato, della crisi, dell'Europa che ce lo ordina (ma dove sta scritto?) si decide di aumentare la "flessibilità in uscita" trasformando il reintegro con il pagamento di una cifra prestabilita al lavoratore licenziato. Solo nel caso di una riconosciuta volontà discriminatoria (la vittima colpita perché iscritta a un sindacato sgradito, oppure perché omosessuale, o donna in gravidanza, o per motivi razziali ecc.) e a condizioni impossibili (l'onere della prova e le spese processuali a carico del lavoratore) sarà possibile la reintegra e non il pagamento di una liberatoria. Ma quale mai padrone motiverà un licenziamento con questi argomenti? E come potrà un giudice dimostrare il contrario, essendogli impedito dalla stessa legge in discussione in Parlamento di entrare nella sfera delle scelte economiche dell'impresa? È evidente che in questo modo si riconsegna tutto il potere nelle mani del padrone azzerando una tradizione di contrappesi e tutele dei più deboli garantiti dallo spirito e dagli articoli della Costituzione e dello Statuto dei lavoratori. Anche il licenziamento individuale per ragioni economiche è ammesso, mentre quelli collettivi con questa motivazione sono da sempre leciti.
Non è la prima volta che la politica, a nome delle imprese, tenta questo affondo all'aspetto più simbolico delle conquiste sindacali realizzate nel secondo dopoguerra in Italia. Ci aveva già provato il governo Berlusconi dieci anni or sono con la complicità di Cisl e Uil ma era stato fermato da una rivolta popolare guidata dalla Cgil e sostenuta dalle forze di sinistra. La novità di oggi è che un governo tecnico nominato dal padreterno (la troika europea) e sostenuto da destra, centro e Partito democratico riuscirà dove Berlusconi ha fallito. La riforma del mercato del lavoro sarà varata probabilmente già entro giugno, senza opposizione parlamentare (eccezion fatta per l'Italia dei valori di Di Pietro). E, soprattutto, senza neanche uno sciopero generale. Si sono fermate le fabbriche metalmeccaniche, ma le tute blu sono state lasciate sole dalla Cgil che ha appena annullato uno sciopero generale di 8 ore in nome di un rapporto da ricostruire con Cisl e Uil. Cisl e Uil che nelle fabbriche Fiat hanno accettato la cancellazione del contratto nazionale di lavoro e l'esclusione della Fiom da ogni attività sindacale. Non solo: a Pomigliano, su duemila operai assunti nello stabilimento a cui Marchionne ha cambiato nome, non ce n'è uno solo che abbia la tessera della Fiom, il sindacato più rappresentativo alla Fiat e in generale tra i metalmeccanici.
Lo svuotamento dell'art. 18 non è che la ciliegina sulla torta avvelenata della controriforma del mercato del lavoro. L'imbroglio a cui lo stesso partito di Bersani finge di credere – e di conseguenza la Cgil "si adegua", con un ritorno alla mai definitivamente superata pratica del sindacato cinghia di trasmissione del partito – è che si riducono i diritti dei garantiti per darne un po' ai non garantiti. E si flessibilizza l'uscita dal lavoro per facilitare la flessibilità in entrata. Nessun provvedimento a vantaggio dei giovani e dei precari è previsto dalla riforma, restano le 46 forme contrattuali diverse, un gigantesco menù a disposizione dei padroni pubblici e privati con cui dividere e imperare sul lavoro e sulla sua condizione sfruttando l'arma della precarietà e scatenando il dumping sociale. In un contesto economico e sociale in cui la disoccupazione giovanile ha ormai superato la soglia tragica del 35 per cento. Meno lavoro e meno diritti per tutti. Salari ridotti secondo il modello greco, pensioni falcidiate. A questo proposito è utile ricordare che la riforma del mercato del lavoro – definito persino dal nuovo presidente di Confindustria Squinzi una "boiata" – segue di pochi mesi quella del sistema previdenziale. Un capolavoro, anche questo agito in nome dei giovani: l'età della pensione è stata spostata di colpo a 67 anni, in progressione fino a 70 anni. Ma se si lavora fino alla morte, come si fa a liberare i posti per i giovani? Anche questa controriforma ha una ciliegina sulla torta. La ministra "Crudelia Demon" Elsa Fornero – la supertecnica d'assalto del Supermario Monti – non si è accorta che centinaia di migliaia di lavoratori erano stati messi fuori dal lavoro con accordi tra imprese, sindacati e governo che prevedevano prepensionamento e copertura economica garantita dagli ammortizzatori sociali. Infine ha ammesso che 65 mila persone sarebbero restate senza salario e senza pensione ed è dovuta intervenire per tamponare la porcata. Peccato che l'Inps abbia scoperto che gli "esodati" sono quasi 300 mila, come sostenevano i sindacati. La mossa successiva della Fornero è stata minacciare di licenziamento il vertice dell'Inps, pur ammettendo che gli esodati sono non 65 ma 120 mila. Ai quali propone di dare un sussidio di disoccupazione oppure impegnarli in lavori socialmente utili. Persino la Uil si dice indignata.
Se un operaio che negli anni Settanta aveva speso tutte le sue forze per consegnare a sé e ai figli un paese più giusto si risvegliasse oggi da un lungo coma, non potrebbe riconoscere il Belpaese. Vedrebbe una politica in frantumi e un mondo del lavoro (e del non lavoro) privo di rappresentanza politica e con un residuo di rappresentanza sociale e sindacale a cui è negata ogni attività. Troverebbe un paese in cui la democrazia è stata sospesa mentre l'evasione fiscale la fa da padrona e la crisi è pagata dai poveracci. Come nel resto d'Europa? In realtà un po' peggio: persino dentro lo stesso schema liberista è possibile arginare l'ingiustizia sociale, investire in uno sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile, nella scuola e nella ricerca. Invece il cavallo Italia rischia di essere accoppato da una cura sbagliata, mentre Hollande che non è un estremista di sinistra decide di investire su scuola e sanità e di riportare a 60 anni l'età pensionabile. C'è chi, da queste parti, ha pronto il passaporto. E c'è chi è già partito.

Pubblicato il

22.06.2012 03:30
Loris Campetti