Iraq, elezione s'ha da fare

Le elezioni irachene, man mano che si avvicina la scadenza del 30 gennaio, perdono sempre più di credibilità. Anche fra i loro maggiori sostenitori, come il presidente degli Stati uniti George W. Bush, che ora cerca di ridurre le aspettative degli americani sostenendo che si tratta solo di «una tappa». «Chiaramente, non vediamo le elezioni in sé come un punto cardine», ha precisato il vice segretario di stato Richard Armitage. «È l’inizio di un processo in cui gli iracheni scriveranno la costituzione e alla fine dell’anno voteranno per un governo permanente». È un primo passo, ma è un passo falso. Già preceduto da un altro evento che doveva essere determinante, come il cosiddetto passaggio dei poteri del 30 giugno scorso, e invece si era rivelato semplicemente una nuova imposizione degli americani. Se all’estero le elezioni sono viste sempre con maggiore sospetto, tanto che persino l’autorevole quotidiano americano The New York Times ha chiesto il rinvio del voto, all’interno del paese per molti rappresenta un vero incubo. L’escalation di violenza rende palese l’impossibilità di realizzare elezioni libere, tanto meno democratiche. Non è una previsione azzardata che una parte consistente della popolazione sunnita, che vive nella zona centrale dell’Iraq, il famoso “triangolo sunnita”, non andrà a votare. Lo ammettono gli occupanti americani e anche il premier ad interim Iyad Allawi, il quale tuttavia minimizza sulla portata dell’esclusione. Anche se proprio sulla scommessa elettorale si gioca il suo futuro politico. È chiaro che sostenendo senza tentennamenti le indicazioni di Bush Allawi si conferma l’alleato più fedele, grazie anche al suo passato al servizio della Cia, ma il futuro potrebbe riservare sorprese se la sua lista elettorale non dovesse raccogliere consensi. Dubbi su questa scadenza elettorale sono sorti anche all’interno della compagine governativa filoamericana. Lo stesso presidente Ghazi al Yawar, sunnita, aveva sollevato perplessità ma poi, pilatescamente, si era affidato all’Onu a cui aveva girato il quesito sulla possibilità di tenere elezioni il 30 gennaio. Fino a qualche mese fa gli americani appoggiati da Allawi pensavano di poter pacificare il paese prima delle elezioni, eliminando le “sacche di resistenza” con un massiccio intervento militare. L’effetto è stato disastroso, soprattutto a Falluja, considerata il simbolo della resistenza. La cittadina, che si trova a una cinquantina di chilometri da Baghdad, aveva già subito un assedio di tre settimane nell’aprile dello scorso anno, poi di fronte all’impossibilità di espugnarla le truppe Usa l’avevano abbandonata nell’isolamento. Che aveva favorito l’estremizzazione di alcuni dei gruppi della resistenza e probabilmente anche l’arrivo di seguaci di Abu Musab al Zarqawi, considerato legato ad al Qaeda. Ancor più devastante è stata l’offensiva, annunciata come definitiva, del novembre 2004 che avrebbe dovuto pacificare la zona in vista delle elezioni. Risultato: la città è distrutta, insieme alle sue attività economiche e alle possibilità di sopravvivenza della popolazione, in stragrande maggioranza sfollata. Come “risarcimento” è stato offerto agli sfollati 100 dollari. Una miseria anche per gli abitanti di Falluja. Che per ora non si fidano a tornare a casa e non voteranno, come non voterà probabilmente tutta la provincia di Anbar, dove la commissione elettorale si è dimessa, sotto le minacce, così come quella di Mosul. Il governo ha stabilito che gli abitanti di queste due province potranno iscriversi alle liste elettorali e votare lo stesso giorno, il 30 gennaio. Difficile pensare che questa decisione possa avere qualche effetto, visto che quel giorno la tensione sarà ancora più alta. La popolazione nel triangolo sunnita non voterà o perché convinta della scelta del boicottaggio sostenuta da diverse forze e in primo luogo dall’influente Consiglio degli ulema, o per paura, visto che le minacce vengono mantenute. La rappresentanza religiosa sunnita (gli ulema) per appoggiare le elezioni aveva chiesto agli americani di indicare una data per il loro ritiro, richiesta che naturalmente è stata respinta. Le forze del fronte del boicottaggio sostengono, infatti, che non è possibile lo svolgimento di libere elezioni sotto occupazione. Ma anche partiti non pregiudizialmente contrari al voto, che avevano già presentato le proprie liste, come il Partito islamico iracheno, si sono ritirati perché mancano le condizioni di sicurezza per votare. La campagna elettorale è impossibile in questa situazione, l’unico partito a sfidare la piazza e a fare comizi è il Partito comunista iracheno che ha presentato la lista Unità popolare, che comprende sciiti, sunniti, kurdi, cristiani. È una delle poche liste laiche e multietniche. Ma alcuni suoi militanti hanno già pagato con la vita questa loro scelta. Tra le vittime delle ultime settimane anche Hadi Saleh, comunista, segretario degli affari internazionali della Federazione irachena dei lavoratori dei sindacati (Iftu, il sindacato ufficiale, l’unico riconosciuto). Comunque, di molti candidati non è stato nemmeno rivelato il nome durante la campagna elettorale e tanto meno le foto. Peraltro molti sono sconosciuti perché hanno passato gran parte della loro vita in esilio. I partiti religiosi, o non, sciiti si sono accaparrati come simbolo la famosa e autorevole immagine dell’ayatollah Ali al Sistani, il più strenuo sostenitore del voto e del mantenimento della scadenza elettorale fissata. Sistani è il promotore, dietro le quinte, dell’Alleanza irachena unita, una lista confessionale sciita. E per costringere la popolazione a votare ha anche emesso una fatwa (sentenza religiosa). Gli sciiti puntano su queste elezioni per ottenere quel potere che è sempre stato loro negato fin dall’indipendenza. Sono la maggioranza, circa il 60 per cento della popolazione è sciita, ma a governare sono sempre stati i sunniti. Democrazia senza partecipazione Risultato: se, come tutto lascia prevedere, la gran parte dei sunniti non andrà a votare, e la stragrande maggioranza dei 275 componenti dell’Assemblea costituente sarà formata dalle liste sciite e kurde (peraltro con tentazioni indipendentiste), una minoranza importante di iracheni (circa il 20 per cento) resterà esclusa. Un risultato che non potrà essere considerato un successo nemmeno per chi si ostina ad ignorare gli effetti dell’occupazione. L’esclusione dei sunniti da un corpo legislativo che deve elaborare la carta costituzionale, dunque fondamentale, mina sul nascere il nuovo Iraq. Che fare, a parte rinviare le elezioni, ipotesi che né Bush né Allawi sono disposti a prendere in considerazione perché, sostengono, rappresenterebbe una vittoria della guerriglia? Una proposta già emersa alla Casa bianca è quella di una cooptazione di sunniti nella prossima assemblea e anche nel governo, visto che sarà l’assemblea ad esprimere la futura compagine governativa. Una proposta respinta anche dalla Commissione elettorale perché sarebbe un’ammissione dell’invalidità di questo voto, basato peraltro su una legge elettorale definita dal proconsole Bremer prima di lasciare l’Iraq alla fine di giugno del 2003. A parte il rischio sempre più tangibile di una spartizione dell’Iraq che queste elezioni sancirebbero con una divisione del paese in tre parti, di cui due rappresentate nell’assemblea e una esclusa, i timori sono anche sul futuro assetto del paese. Non c’è dubbio che ci sono paesi vicini dell’Iraq che sono fortemente interessati all’evoluzione del paese e i legami più forti sono quelli tra la maggioranza sciita e il regime iraniano. La leadership dello Sciiri (Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq), che guida la lista sciita Alleanza irachena unita, ha passato gli anni dell’esilio, durante il regime di Saddam, a Tehran sotto la protezione degli ayatollah. Quindi i timori che i probabili vincitori delle elezioni, visto che dovranno elaborare la costituzione, possano cercare di imporre lo stato islamico su modello iraniano sono molto forti. Anche perché a fare la parte del leone sullo scenario politico iracheno sono proprio i partiti religiosi che hanno nelle moschee le loro sedi e nelle milizie il braccio armato in grado di controllare il territorio. Timori fondati e diffusi tanto che, nei giorni scorsi, Mowaffak Rubaie, uno dei leader della coalizione sciita, ha tenuto una conferenza stampa per spiegare che «questa non è una competizione tra sunniti e sciiti. Non c’è intenzione di formare uno stato islamico o teocratico, o uno stato sciita o un governo sul modello iraniano». E poi ha invitato a votare nonostante l’appello al boicottaggio dei sunniti. Quel che è certo è che mai come in questo momento sunniti e sciiti sono stati divisi. E questo non è certo di buon auspicio per il futuro dell’Iraq. Che, elezioni a parte, continua a sprofondare nella violenza (che fa vittime soprattutto tra gli iracheni, ma anche le truppe di occupazione allungano ogni giorno la loro lista delle perdite) e nella miseria. Archiviato il dossier sulle armi di distruzione di massa che non sono state trovate perché non c’erano ma intanto per la loro esistenza si è consumata una guerra; sconfessata persino da un rapporto della Cia la portata anti-terrorismo dell’invasione dell’Iraq, che anzi ha favorito il diffondersi dei jihadisti che prima si trovavano da altre parti del mondo, come l’Afghanistan, resta da dimostrare che però la spedizione armata ha portato la democrazia in Iraq. Ma non saranno certo queste elezioni a dimostrarlo. Anzi, la presenza di forze di occupazione allontanano il processo di democratizzazione del paese.

Pubblicato il

21.01.2005 04:00
Giuliana Sgrena