"Io, italiano in Svizzera, spiato dalla polizia federale"

A cosa serve una mappa in scala 1:1? Come dire: 1 metro di territorio “ridotto” a 1 metro di rappresentazione? A poco o niente. È anche difficile da trasportare. La si potrebbe, al massimo, stendere sul terreno a coprire città e montagne, nascondendole, e camminarci sopra. Quindi la domanda diventa: come mai e a chi può venire in mente l’idea di fare una mappa 1:1? Chiaramente a nessuno. Se succede non può che trattarsi di un effetto indesiderato. Una sorta di moltiplicatore che s’insinua subdolo in un progetto che certamente si voleva: patriottico, discreto, anzi nascosto, razionale, utile, pratico e di pronto ed empirico uso. * * * E se l’elefantiasi, che si innesca in corso d’opera, fosse ancora più perversa? Atto primo: come da obiettivo: si comincia a schedare qualcuno che si suppone “sovversivo”. Atto secondo: se sommariamente verificato che potrebbe essere o diventare un caso interessante, gli si dedica, e quindi si alimenta, un dossier personale. Quindi: gli si aprono le lettere, si registrano le telefonate, in certi casi lo si segue a distanza, si fotocopiano i materiali che produce e che riceve: posta, relazioni, discorsi circolari, atti di convegni, articoli di giornale, lo si fotografa in varie situazioni. Atto terzo, il più drammatico: l’effetto moltiplicatore che è in agguato, scatta: si sa che ogni lettera proviene da o è indirizzata a qualcuno che quindi ha nome e cognome indirizzo, talvolta numero di telefono (non c’erano ancora gli indirizzi e-mail). Figurarsi le circolari. Peggio ancora gli elenchi dei partecipanti ad un convegno. O i numeri delle targhe rilevabili all’esterno di un locale dove si svolge una riunione “clandestina”. Così, neppure troppo lentamente, inserendo tra gli schedabili prima l’uno e poi l’altra, si viene a creare una fitta ragnatela che collega se non tutti con tutti, certamente tanti con tanti. Eccola costruita la mappa 1:1: una testa un dossier. Nell’epoca dell’informatica si chiamano reti. Ma allora l’uso dei computer era all’inizio. Si batteva a mano ogni informativa. E ogni informativa conteneva più nomi di “sovversivi” che si erano parlati, incontrati, scritto, e quindi di ognuna occorreva fare più copie e inserirle nei rispettivi dossier, se non c’erano occorreva allestirli, e quindi, via via, arricchirne l’indice, il volume e il peso di ognuno. * * * È grossomodo quello che successe, tra i primi anni ‘50 e il 1989, in crescendo, in Svizzera. Si sa che il numero delle schede, quando si decise di smettere e di cambiare strada, erano arrivate, solo quelle a livello federale, a oltre 900 mila di cui circa 300 mila dedicate a svizzeri e almeno 600 mila a immigrati. Si potrebbero aggiungerne un altro 20-25 per cento non trasmesse, per competenza, dalle polizie cantonali e delle città di Zurigo e Berna, alla Confederazione. Gli immigrati negli anni ‘70 superavano di poco il milione e gli italiani, da soli, erano oltre mezzo milione. Si è poi visto che la gran parte delle schede riguardavano gli immigrati italiani e le loro organizzazioni. Il clima generale in cui vivevano gli immigrati non era dei migliori. Si susseguivano i referendum antistranieri, sistematicamente bocciati, alcuni sul filo di lana, che contribuivano all’incertezza e alla provvisorietà. Gli slogan dei movimenti xenofobi battevano insistentemente su questi tasti. Si poteva leggere, 1970, su un piccolo rettangolo di carta che veniva lasciato nelle cabine telefoniche durante la campagna referendaria di Schwarzenbach: «Ma certo che abbiamo bisogno di lavoratori stranieri! Riempiono i nostri ospedali e i nostri sanatori. Riempiono gli appartamenti a buon mercato e le nostre strade. Riempiono i nostri asili infantili e le nostre scuole. Riempiono le coltivazioni di calcestruzzo e la nostra terra fino a farla scoppiare. Riempiono i portafogli di industriali, speculatori e di bonzi». Che certamente sono tasti stonati e scompagnati, tra razzismo e populismo, per beccare a destra e mordicchiare a sinistra, ma sono tasti veri (sui richiedenti d’asilo, in modo ancora più pesante e con più successo, vengono suonati ancora oggi). È un fatto: gli immigrati, come tutti, facevano e fanno figli, che poi andavano e vanno a scuola, alle volte si ammalano, hanno incidenti sul lavoro, cercano di passare da una baracca ad un appartamento, è vero che costruiscono tanto e dappertutto: dove chi li ha assunti (chi finanzia) ha deciso di costruire. * * * Il richiamo forte di Frisch dove chiede che il dibattito non si scosti mai da un livello minimo di razionalità e di umanità: «Hanno cercato braccia e sono venuti uomini». Fece grande effetto, ma lasciava come implicito qualcosa di importante. Il problema non era tanto la loro relativa fragilità e umanità, che se riconosciute costano, da cui l’utilità pratica, di tenerli relativamente isolati e sotto pressione, in modo che interagiscano il meno possibile (affinché, come teorizzava Schwarzenbach: «Non producano inforestieramento») e quindi non vengano loro in mente, o il più tardi possibile, consapevolezze collettive e quindi rivendicazioni sacrosante, che possono essere spostate sì, ma quasi mai eluse completamente. Anche il Consiglio federale si trova / si crede costretto a entrare, in quella logica. Il passaggio che segue è contenuto nel messaggio contro l’iniziativa antistranieri degli anni ’70: «… occorre distinguere tra straniero e straniero secondo l’incidenza sul processo d’inforestieramento. E tale incidenza, com’è chiaro, risulterà più o meno notevole secondo la durata della dimora: minima per i frontalieri, che rimpatriano ogni sera, un po’ più forte seppur sempre esigua, per gli stagionali, che scarsi contatti hanno con la popolazione…». Altro che integrazione, voto amministrativo, diritti politici, cittadinanza facilitata. Certo che alla Sulzer, alla Bbc, all’Escher Wyss, alla Waggonfabrik, e sui cantieri edili, e delle grandi dighe e delle prime autostrade erano utili, anzi indispensabili. Ma poi si iscrivevano ai sindacati, anche per convinzione, anche per cambiarli, venivano eletti nelle commissioni interne. Costruivano e rafforzavano le loro associazioni che, si vedeva ad occhio nudo, erano “sovversive” anche quelle. E poi c’era la guerra fredda. * * * Il problema vero è che molti di quegli uomini, quelli della prima ondata, certamente erano venuti in Svizzera per lavorare e che di quella manodopera la Svizzera ne aveva grande bisogno, ma avevano anche un “progetto”. Un progetto di società. Erano stati soldati, magari prigionieri o deportati e poi, molti, dopo o invece, partigiani. Avevano occupato le fabbriche dove lavoravano, che prima producevano per la guerra, perché invece di riconvertirle venivano chiuse (e quando l’occupazione entrava in crisi, arrivavano a reclutarli gli emissari delle industrie svizzere). Praticavano “cattive” letture, si erano fatti un’idea della centralità del lavoro, del plus valore, del profitto, dello sfruttamento, dell’organizzazione operaia, della solidarietà di classe. Insomma avevano esattamente, idee “sovversive”: sui diritti sindacali e politici, sulla ridistribuzione della ricchezza, sullo stato sociale. Figurarsi sulla pace del lavoro. Certo con tutto lo slancio, e le contraddizioni e i contrasti, gli scontri, le scissioni di cui erano ricche la politica e la speranza italiane negli anni della ricostruzione. Non molto distanti, comunque, nella sostanza, da quanto ispirava e muoveva la sinistra svizzera. Quindi, a parte l’elefantiasi che si produsse, certamente indesiderata come si è visto, le ragioni, per intensificare le schedature, c’erano e come. Almeno quante ce n’erano per andare a mettere il naso e a schedare i soci delle cooperative svizzere (es. tutti i soci delle cooperative di abitazione zurighesi Wogeno), degli asili autogestiti, di chi partecipava alle manifestazioni per la pace, ecc. L’unico problema, lo si scoprì e lo si scrisse nei rapporti ufficiali nel 1989 e 1990, era che tutto ciò avveniva senza il controllo del parlamento sul Ministero pubblico federale e sulla Polizia federale, che si sviluppava autolegittimandosi per regole e forze interne senza un mandato politico esplicito, su basi giuridiche deboli, con una protezione assoluta e unidirezionale dei dati, senza possibilità di ricorso e di correzione delle informazioni, talvolta non verificate, da parte delle ignare persone schedate. * * * Accenno alle mie schede: la prima porta la data del 08.01.63, l’ultima è del 30.12.76. È l’ultima solo perché rientro in Italia, ma si è visto che le schedature dureranno fino al 1989. Trascritta dice: «Z.. abita in via Robecchi Brichetti 29, 00154 Roma. Z.. ha richiesto il giornale “Realtà nuova”». Addirittura nella prima scheda (ma è davvero la prima?) si relaziona anche di una “loro” visita al mio datore di lavoro. Per metterlo in guardia? Ma questi sembra limitarsi a prenderne nota e si (mi?) protegge dicendo all’incirca: «È qui come specialista di grandi contenitori in cemento armato per liquidi; abbiamo previsto, in quanto tale, di delegarlo a dirigere la nostra filiale in Marocco (Casablanca) dove tempo fa è già stato attivo». Quasi a significare: a noi va bene così, ma non preoccupatevi che ve ne libereremo presto. Ma, ovviamente, di questa mia pre-destinazione, nessuno me ne aveva mai parlato, e di quella conversazione lo seppi solo quando ebbi tra le mani le schede, cioè nel 1994, trent’anni dopo. Nel frattempo avevo cambiato già tre volte lavoro. Ci saranno state anche lì delle visite? Dalle schede non risulta. A quanti una visita del genere sarà costata il posto, fatto perdere un concorso, bloccato la carriera? Catastrofi personali seguite da chissà quali postume, fasulle giustificazioni, ovvio formalmente corrette, date su un cuscino di velluto, all’ignaro interessato. Se svizzero. O il non rinnovo del permesso di lavoro o di soggiorno. Si praticavano, più raramente, anche le espulsioni. Se straniero. Altrettanto ignaro. Si può almeno dire che in quegli anni, visto che la politica dell’immigrazione perseguiva obiettivi prevalentemente di rotazione, piuttosto che d’integrazione, le schedature favorirono la rotazione e ritardarono le politiche d’integrazione? Il “subconscio” di domanda e offerta, si potrebbe azzardare, in qualche modo convergevano. «Se non possiamo proprio farne a meno e quindi buttarli fuori tutti: alleggeriamone il peso il più possibile»: così la parte più chiusa della società di accoglienza. “Tornare per votare, votare per tornare”: così lo slogan delle forze di opposizione del paese d’origine. Che corrispondeva al progetto iniziale di “emigrazione come parentesi” della prima generazione. * * * Insomma le schede mi accompagnano per tutti quegli anni. Alcune diventano dossier dettagliatissimi. Nel mio curricolo professionale, ad esempio, sono raccolte informazioni che risalgono addirittura al 1952, cioè a diversi anni prima che venissi in Svizzera. Cantieri e studi professionali oramai dimenticati, li ritrovo lì, come fosse ieri. Con un sentimento strano, quasi con riconoscenza… Ma come avranno fatto? Ma il sentimento diventa più perplesso, di rigetto, quasi angoscioso, quando le informazioni entrano nella sfera privata, privatissima. Si sapeva che la polizia degli stranieri teneva sott’occhio «l’attività delle organizzazioni straniere in Svizzera», quelle di sinistra in particolare, che c’era anche un elenco di indesiderati (funzionari sindacali e politici italiani) che talvolta, quando venivano a trovarci, se ne dimenticavano o pensavano che i tempi fossero cambiati (o magari per aiutare a cambiarli), andavano in albergo e, individuati, potevano anche essere riaccompagnati alla frontiera. C’erano anche problemi di conoscenza dell’“altro”, delle rispettive Istituzioni e Organizzazioni, dei linguaggi, che si potrebbe semplificare con: «Egregio Signor Cantone…» scritto da un immigrato o con: «Cerchiamo il Signor Antonio Gramsci…» detto da un poliziotto svizzero a Bülach, dove effettivamente c’era una sezione “clandestina” del Pci che così gli iscritti avevano battezzata. Nelle schede finirono anche quegli strafalcioni? Copiati dai messaggi degli schedati o stracapiti da chi le schede le compilava? Magari di più all’inizio. Con l’esercizio si migliora. Si potrebbe dire che trattandosi di un lavoro interattivo, anche se in una sola direzione, uno migliorava l’altro… Ma nessuno sospettava una macchina così grossa e così meticolosamente congegnata. Si rilasciavano interviste, ci si riuniva, si rivendicava, si organizzavano feste e petizioni, si pubblicavano giornali. Un complotto continuo… Ma, detta macchina, perseguiva davvero solo obiettivi squisitamente politici e di sicurezza, certo non propriamente neutrali, cioè tesi ad individuare e isolare i “sovversivi”? O ha anche avuto un uso più concreto e pragmatico, di praticare una sorta di Berufsverbot, subdolo in quanto segreto, efficace in quanto diffuso? Per questo sarebbe interessante uno studio dettagliato che, partendo dal “Rapporto della Commissione parlamentare d’Inchiesta, del 22 novembre 1989”, Commissione presieduta dall’allora consigliere nazionale Moritz Leuenberger, oggi consigliere federale, e dall’immensità delle informazioni raccolte avesse come tema, qualcosa del genere: “La gestione della politica migratoria, attraverso le schedature”, o, forse più probabile perché alla macchina non interessavano solo gli immigrati: “L’influenza delle schedature nella gestione del mercato del lavoro”. * * * Al momento della scoperta di una massa così enorme di schede c’era stato tra gli svizzeri una sorta di sgomento, chi propendeva per la loro immediata distruzione, chi, con più senso della storia e della memoria, per il loro deposito negli archivi federale e cantonali. Per fortuna vinse questa seconda opzione e oggi, con certi vincoli rispetto alle informazioni sulle persone, possono essere consultate. Ne fu anche spedita fotocopia, cancellate le più dirette fonti d’informazione, ai titolari di schede che ne avessero fatta richiesta. Spero di averle ricevute tutte. In alcune realtà locali diversi cittadini hanno depositato le loro in archivi privati a disposizione di studiosi e studenti. Non risulta che siano stati fatti degli studi sistematici o delle tesi di laurea o di dottorato su questo sterminato deposito. Si tratta pur sempre della storia della Svizzera. Anche ci si “limitasse” alle schede sull’immigrazione ne verrebbe fuori certamente uno spaccato di grande interesse. Perché non promossi e finanziati dalla Commissione Federale degli Stranieri (Cfs)? Che potrebbe dedicare a quest’area di ricerca uno dei capitoli dei fondi che ha in dotazione per favorire l’integrazione. * * * Se fino al 1989 non c’era stata nessuna verifica parlamentare sulle schedature e tutta l’operazione era fuori controllo politico, oggi una delegazione della Commissione della gestione: 3 membri del Parlamento e 3 del Consiglio degli Stati (analogamente avviene sia a livello cantonale che delle città) ha il compito, formalmente attribuito, di controllare la raccolta delle informazioni, che sono diventate più selettive (anche la lista delle organizzazioni sotto controllo viene periodicamente aggiornata) e la Commissione deve produrre ogni anno un resoconto al Parlamento che ne discute. * * * Certo ci sono ambiti imprescindibili legati alla sicurezza dello Stato: il controspionaggio, lo spaccio di droga, il traffico illegale di armi, il riciclaggio di denaro sporco, l’esportazione e l’importazione illegale di valuta, le organizzazioni criminali internazionali e, in crescendo, il terrorismo. Ma oggi il binomio sicurezza-terrorismo sta premiando su tutto. Diventa un’emergenza che s’impone, rischiando di ottundere (anche per la mitizzazione e la militarizzazione che se ne fa) il senso critico, di eludere il controllo politico, di indebolire le garanzie democratiche. Altro che Orwell: incrociando le informazioni che graziosamente e periodicamente forniamo usando le carte di credito (liquidità), dell’assicurazione malattia (salute), dei grandi magazzini (consumi), le Visa (spostamenti, vettori, vacanze), ecc. ecc., di ognuno si potrebbe definire un ritratto molto più preciso di un Identikit, una vera e propria foto. E oggi, visti gli sviluppi delle tecnologie, la mappa potrebbe essere davvero realizzata e tranquillamente gestita anche in scala 1:1. Per non parlare di impronte digitali e/o delle foto della cornea che si vorrebbero inserire nei passaporti, del Dna che per ora si raccoglie a “posteriori”, ma le cui teche aumentano. Termino con un augurio, rivolto a tutti, me compreso, e ai miei figli e figlie nel frattempo diventati o nati già svizzeri, e loro coetanei, che la lezione della parziale deriva delle schedature, in gran parte ancora inesplorata, serva, almeno qui, ad evitarne una peggiore. --- Il presente articolo è una traduzione del testo pubblicato nel libro AaVv, “Das Jahrhundert der Italiener”, a.c. di Ernst Halter, Offizin Verlag, Zürich 2003, che apparirà in italiano in primavera edito da Casagrande Bellinzona (cfr. box a pag. 8). Ringrazio per il tempo che mi hanno dedicato e la possibilità che, da quegli incontri, ne è risultata di avere informazioni di prima mano e di verificare le mie: • Marco Mona, giurista, già “Mister schede” per la città di Zurigo (come dire commissario incaricato della restituzione delle schede di competenza della città). Sullo scandalo delle schedature ha scritto: «I nostri controllori (…) con le loro attività extralegali si sono nettamente allontanati dai principi di uno stato di diritto democratico», in “La schedatura illegale”, pubblicato in AaVv, Storie di schede, 1991; • Werner Carobbio, già consigliere nazionale e coestensore del Rapporto della Commissione d’inchiesta sul Dmf, di cui è stato vice presidente. Bibliografia: • Rapporto della Commissione parlamentare d’Inchiesta, del 22 novembre 1989. Avvenimenti successi nel Dfgp. Cancelleria federale, 89.006, Berna 1989; • Rapporto della Commissione d’inchiesta parlamentare, incaricata di chiarificare i fatti di grande portata intervenuti al Dipartimento militare federale. Berna, 17 novembre 1990. Cancelleria federale, 90.022, Berna 1990; • AaVv: Storie di schede, schede per la storia. Archivio storico ticinese, n. 109. Casagrande, Bellinzona 1991.

Pubblicato il

19.12.2003 04:00
Leonardo Zanier