Io, Marx e il diritto

Pio Caroni, che dal 1971 al 2003 è stato professore ordinario di storia del diritto e di diritto privato all’Università di Berna, ateneo di cui è stato anche rettore, è una delle più brillanti personalità che il mondo accademico e culturale ticinese possa vantare. Eppure il suo lavoro e il suo pensiero in Ticino sono quasi del tutto ignorati. Sia perché ha sovente operato lontano dal suo cantone di origine, sia (e forse soprattutto) perché le sue idee sono spesso scomode, poco conformiste, per nulla disposte ad accomodarsi con il potere. Per colmare questa dimenticanza esce in questi giorni dall’editore Casagrande di Bellinzona una stimolante raccolta di scritti offerti da una ventina di autori in occasione del suo 65° compleanno. Intitolata “Un inquieto ricercare” essa verrà presentata martedì 8 giugno alle 18.30 alla Biblioteca cantonale di Bellinzona. L’occasione è propizia per un’intervista proprio con Pio Caroni. Professor Caroni, lei non ha mai fatto mistero del suo orientamento politico di sinistra. Durante la sua carriera universitaria le sue opinioni politiche le sono state d’ostacolo? Ho avuto la fortuna di andare in cattedra molto giovane, a 33 anni, sorretto dalla fiducia di maestri che, pur non condividendo le mie scelte politiche, mi vollero in facoltà. Penso di non averli delusi. Ma è chiaro, persino ovvio, che nell’ambito delle scienze umane orientamenti politici minoritari o “irregolari" – come sono tuttora quelli di sinistra – possono ostacolare o frenare, talvolta persino impedire, carriere accademiche. Gli esempi purtroppo non mancano. Lei 30 anni fa con Barenco, de Biasio, Manetti e Snozzi pubblicò un pamphlet che fece scalpore, “Per un notariato davvero pubblico nel cantone Ticino”. Da allora nulla s’è mosso. È una battaglia persa? E varrebbe ancora la pena combatterla? La battaglia fu persa, come del resto prevedeva, con largo anticipo, il copione. A distanza di tanti anni posso solo confermare che gli autori di quel pamphlet lavorarono con passione e serietà, ma pure si divertirono un mondo: non solo a discuterlo e ad elaborarlo, ma anche a osservare l’evidente imbarazzo che provocò e a registrare i vari tentativi di intimidazione e le maldestre strategie messe in atto per squalificare (ovviamente a limine) il valore della ricerca. Di una ricerca che ritengo tuttora valida, poiché avanzò proposte ragionevoli, rimaste purtroppo inevase. Lo resteranno ancora a lungo, credo, se si permetterà anche in futuro ai (molti) notai presenti in Gran Consiglio di difendere pubblicamente un privilegio professionale oggi difficilmente giustificabile. Lei insegna che il diritto non è mai neutrale. Eppure nelle facoltà di diritto i docenti fanno molto spesso come se lo fosse, ignorando i rapporti di forza sociali che presiedono ad ogni atto legislativo. Perché? Più che di vera ignoranza, parlerei di offuscamento/oscuramento, ossia di un più o meno consapevole atteggiamento volto a nascondere l’antagonismo sociale, a non farlo confluire nell’ambito del giuridico. Qualcuno ritiene a tal modo di recuperare l’autonomia, ossia la purezza, della scienza giuridica, liberandola da scorie indesiderate. Altri lo fanno poiché giudicano politicamente utile il silenzio sul contesto sociale e politico dell’atto legislativo – in realtà ragionando così, tutti trasmettono un’immagine deformata del diritto, offendono la verità e ingannano i destinatari del loro insegnamento. Sono questi i peggiori maestri. In quale misura lei si definirebbe marxista? In altri termini: cosa c’è da salvare oggi di Marx? Marx è uno degli autori che continuo a studiare, come del resto altri di diversa ispirazione ma paragonabile portata (Max Weber, Tocqueville, Pirenne o Marc Bloch, tanto per fare qualche nome). Gli devo, fra le altre cose, una coscienza molto più incisiva e differenziata del contesto (sociale, politico, culturale) che “circonda” (o “accompagna”) il fenomeno giuridico, e che a tal modo concorre a definirne (o precisarne) la valenza. O dovrei forse accantonare queste letture per “punire” tutti quei politici che hanno letto Marx con intenti poco confessabili, ma comunque perversi? Sarebbe assurdo La teoria marxista del diritto come sovrastruttura dei rapporti di potere offre ancora oggi uno strumento valido d’interpretazione della realtà giuridica? Nella sua formulazione più matura, che non esclude l’influsso di fattori extraeconomici, pur privilegiando, di regola, quelli economici, la ritengo tuttora valida. Lo conferma paradossalmente l’attuale politica delle facoltà giuridiche, tendenzialmente ostile alle cattedre “teoriche” (storia, filosofia, teoria, sociologia del diritto, ecc.), ma ben decisa a rafforzare l’impatto di quelle scopertamente “economiche” (diritto degli affari, dell’economia, delle banche, ecc.). Il che equivale a dire: proprio l’“esplosione” degli ultimi vent’anni – comunque la si voglia chiamare – documenta la bontà dell’analisi marxiana. Viviamo tempi in cui domina un’ideologia individualista e desolidarizzante. Questo clima culturale ritiene che possa arrecare forti danni al nostro sistema normativo? È difficile affermarlo astrattamente. Ma è ovvio che il sistema giuridico si adatta, con maggiori o minori ritardi, al modello sociale imperante. Se questo incoraggia tendenze desolidarizzanti o comunque disgregative, prima o poi le norme giuridiche ne subiranno il contraccolpo e ne verranno coinvolte. La recentissima storia italiana (purtroppo) lo conferma. Il diritto privato svizzero, in particolare il codice delle obbligazioni, viene costantemente aggiornato nel senso di una tutela maggiore della parte ritenuta più debole del contratto (lavoratore, inquilino, acquirente ecc…). Il nostro diritto privato soffre di un “peccato originale”? Il “peccato originale”, semmai, non è imputabile al “nostro” diritto privato. È piuttosto inerente alla categoria astratta del “diritto privato”, alla quale vollero corrispondere i grandi codici borghesi dell’Ottocento. Viene specularmente contrapposta a quella del “diritto pubblico”, è quindi inevitabilmente frammentaria, unilaterale. Tentare di combatterne la “parzialità”, rispettivamente l’“egoismo”, inserendo nei codici regole più “sociali”, è magari lodevole, ma spesso purtroppo fatica vana. Poiché le stesse forze sociali, alle quali l’unilateralità del diritto privato (e tutto quanto essa purtroppo fa apparire giuridicamente lecito) in fin dei conti serve, prima o poi le neutralizzeranno, quando non ne faranno cartastraccia. Ritiene giustificate le paure di chi vede nella crescente presenza dell’economia nelle Università un potenziale limite alla libertà di ricerca? Queste paure esistono, non le ritengo tutte frutto di fantasia o di facile allarmismo. Poiché anche in questo campo il mecenatismo è un’ispirazione del tutto eccezionale, a lungo andare chi finanzia un insegnamento ed una ricerca specifica aspira pur sempre ad un tornaconto. È il sistema che lo vuole e che impone – del tutto “logicamente” – i necessari “aggiustamenti” della libertà di ricerca. La prudenza non è perciò mai troppa.

Pubblicato il

04.06.2004 04:30
Gianfranco Helbling