Anche a 82 anni Ludwig Baumann non ha perso la voglia di lottare in prima persona contro le tante ingiustizie che si vedono in giro. Forse perché quest’uomo dall’aspetto fine, i cui occhi ridono anche quando racconta le sue tragedie, di torti in vita sua ne ha subiti fin troppi. Baumann ha disertato dalle fila della marina tedesca nel corso della seconda guerra mondiale, una scelta coraggiosa che, oltre a costargli la condanna a morte (commutata poi in prigionia), la tortura e una serie di altre atroci esperienze, lo ha relegato al rango di paria nella società tedesca del dopoguerra. Strano paese la Germania, dove da una parte il processo di elaborazione delle colpe collettive del nazismo è stato svolto con grande determinazione, mentre dall’altra la diserzione dall’esercito di Hitler è stata per decenni – e per certi ambienti è ancora oggi – sinonimo di infamia assoluta. Neanche ai boia più zelanti del terzo Reich è stato mai riservato tanto disprezzo. Dopo oltre trent’anni di battaglie Baumann e i pochissimi disertori sopravvissuti ai plotoni d’esecuzione, alla prigionia e alle malattie fisiche e mentali provocate dal completo isolamento sociale hanno vinto la loro battaglia. Nel 2002 il governo Schröder, dopo anni di esitazioni e ripensamenti e contro il parere dell’opposizione conservatrice, li ha riabilitati ufficialmente. L’impegno politico di Ludwig Baumann, però, non si è concluso quel giorno, anzi. Dovunque si manifesti contro il militarismo e l’imperialismo, dovunque revisionisti ed assassini della memoria provino a spargere il proprio veleno, Baumann è sempre in prima fila per protestare, ammonire e ricordare. Lo abbiamo incontrato nel corso di una manifestazione antifascista tenutasi di recente vicino a Monaco di Baviera. Signor Baumann, come nacque la sua decisione di disertare? Non credo che fu una questione di coraggio e nemmeno di grande consapevolezza politica. Già da ragazzino mi ero rifiutato di entrare nella “Hitler Jugend”. Non tolleravo quel mondo organizzato in modo strettamente gerarchico, dove gli ordini, anche quelli più stupidi, non si dovevano discutere. Con il servizio militare fu lo stesso. I miei problemi iniziarono quando, durante i primi giorni di leva, mi rifiutai di pulire gli stivali del mio superiore. La diserzione fu l’estrema conseguenza della mia disobbedienza radicale. Certo, non mi piaceva l’idea di essere in guerra contro gente che non mi aveva fatto niente e provavo antipatia per il regime, ma, come detto, la mia, più che una posizione ideologica, era un atteggiamento spontaneo. Fu la visione di un cinegiornale dedicato all’inarrestabile avanzata tedesca in Russia e ai milioni di prigionieri dell’Armata rossa caduti nelle mani del nostro esercito a farmi riflettere per la prima volta. Capii che per quegli uomini, che le immagini mostravano chiusi in recinti all’aperto, senza cibo, a 40 gradi sotto zero, non c’era scampo. Era un massacro pianificato e decisi che non volevo rendermene complice. In quel momento nacque la mia decisione di scappare. Quale era il suo piano? Avevo un commilitone, il suo nome era Kurt Oldenburg, cui osavo confessare i miei dubbi. Anche lui la pensava come me. Entrambi volevamo farla finita con quella porcheria di guerra, avevamo vent’anni e volevamo vivere. Così decidemmo di disertare assieme. La nostra compagnia era schierata a difesa del porto di Bordeaux. Pensavamo di attraversare il vicino confine che separava la Francia occupata da quella di Vichy e da lì raggiungere il Marocco, dove non c’era la guerra. Dalle coste africane, se la fortuna ci avesse assistito, volevamo tentare di raggiungere gli Stati Uniti. Era il nostro sogno e tale rimase. A pochi chilometri dal confine, infatti, incappammo in una pattuglia che ci catturò. Eravamo armati e avremmo potuto sparare, ma sia a Kurt che a me mancò il coraggio di uccidere. Come si salvò dal plotone di esecuzione? Il processo fu una pura formalità. In meno di quaranta minuti il mio amico ed io ci ritrovammo condannati a morte. Il fatto che la condanna non venne eseguita – come, invece, accadde nella maggior parte degli oltre 30 mila processi per diserzione istruiti dalla giustizia militare tedesca – lo devo all’intervento di mio padre presso un suo amico commerciante che era in buoni rapporti con l’ammiraglio Reader. La mia condanna a morte e quella di Kurt vennero commutate in 12 anni di carcere duro, da scontare a guerra finita. Dell’intervento di mio padre e della conseguente grazia, però, non fummo informati. Per quasi dieci mesi fummo tenuti prigionieri a Bordeaux assieme a un gruppo di repubblicani spagnoli, scappati dalla dittatura franchista. Ogni volta che le guardie si avvicinavano alla mia cella pensavo che era giunto il momento della mia fucilazione. Per farci impazzire ci portavano ad assistere alle esecuzioni degli spagnoli, tra questi c’erano anche alcuni bambini di appena undici o dodici anni. Quei mesi non potrò mai cancellarli dalla mia memoria, quelle grida, quelle torture popolano ancora oggi i miei incubi. Passati dieci mesi ci trasferirono nel campo di concentramento di Torgau, in Germania, comunicandoci, che eravamo destinati ad un battaglione punitivo in partenza per il fronte orientale.Finì, insomma, proprio là, dove non sarebbe mai voluto andare. La nostra era un’unità composta esclusivamente da disertori e avversari politici dei nazisti. Fummo inviati come carne da macello contro l’Armata rossa che avanzava verso i confini tedeschi. Fu una carneficina indescrivibile, fui uno dei pochi a sopravvivere, seppur ferito. Anche il mio amico Kurt morì. Come fu accolto al suo ritorno a casa, alla fine del 1945? Mi aspettavo che la società tedesca riconoscesse, almeno in parte, la nostra scelta di disertare. Invece non fu affatto così. I pochi superstiti tra i miei compagni ed io siamo stati emarginati, umiliati e minacciati per decenni. Persino le donne ed i vecchi ci chiamavano “traditori”, “vigliacchi” e “maiali”. Non trovammo appoggio in nessuna forza politica. Molti di noi si ammalarono. Io divenni alcolizzato e solo dopo diversi anni e una serie di tragiche esperienze personali, tra cui la morte di mia moglie, sono riuscito ad uscire dalla dipendenza. A partire dagli anni ’70 ho trovato dei validi interlocutori nei giovani del movimento ambientalista e antinucleare e ho cominciato a fare politica assieme a loro. Nel 1990 ho fondato, assieme ad una trentina di ex disertori, l’associazione “Vittime della giustizia militare nazista” e insieme abbiamo cominciato a batterci per la nostra completa riabilitazione e per vederci riconosciuta la pensione di guerra di cui tanti gerarchi nazisti godevano fin dagli anni ’50. Nel 2002, dopo decenni di lotte contro lo sciovinismo e l’ipocrisia insiti in tanta parte del mondo politico e della società tedesche, siamo riusciti a vedere cancellato il reato di diserzione dalle nostre fedine penali. Il suo impegno politico, però, continua tutt’oggi. Spero che la mia storia e quella di tanti altri disertori servano alle nuove generazioni. Non voglio glorificare la nostra scelta – penso che in una guerra non ci sia mai niente da glorificare –, ma il tema dell’uso delle armi e dell’oppressione di altri popoli è purtroppo nuovamente attuale in un mondo dove i paesi ricchi difendono i propri privilegi con l’impiego della forza. Inoltre, bisogna combattere sul nascere ogni forma di revisionismo e ogni tendenza a relativizzare il male assoluto che fu il nazionalsocialismo. Ad esempio, trovo aberrante quello che sta avvenendo in Sassonia. Il governo cristianodemocratico di quel Land ha deciso di erigere monumenti alla memoria delle vittime del regime comunista della ex Ddr in luoghi come il campo di concentramento di Torgau, senza prendersi però la briga di ricordare che la maggior parte delle persone rinchiuse lì dai sovietici, dopo il 1945, erano gli aguzzini nazisti che in quello stesso campo, per anni, avevano torturato e ucciso i prigionieri. Un esempio eclatante di come si possa falsificare la storia e preparare il terreno per nuove tragedie.

Pubblicato il 

28.05.04

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