Industria bellica senza freni

Alcune aziende svizzere di armamenti hanno espresso il desiderio di esportare i propri prodotti verso paesi in cui sono in corso conflitti armati interni. Gran bella idea! E se inviassimo qualche veicolo blindato in Sud Sudan, delle granate in Siria, dei fucili d’assalto in Yemen e delle pistole d’ordinanza per la polizia del Burundi, conosciuta per la propria visione del rispetto dei diritti umani? Sarebbe sicuramente un modo efficace per rilanciare l’industria bellica, così fortemente toccata dalla crisi. E poco importa se questo porterà alla perdita di qualche centinaio, se non qualche migliaio di vite umane. Semplici danni collaterali.
Ma la crisi del settore dell’esportazione di armi è così drammatica? Ci permettiamo di dubitarne poiché nel rapporto di gestione 2016 della Ruag si legge che l’azienda ha «realizzato una cifra d’affari più elevata di tutta la sua storia» e che «le entrate di ordini hanno pure raggiunto un livello record».


I produttori di armi non hanno quindi mancato di sfacciataggine nel rivolgersi alla commissione della politica di sicurezza del Consiglio degli Stati per chiederle di modificare la nostra legislazione, così restrittiva, secondo loro, da essere la causa di tutti i loro mali. Non si tratta certamente dell’unico motivo dei problemi che devono affrontare i nostri guerrafondai. È verosimile che il franco forte e i costi di produzione abbiano pure un ruolo. Ma – a quanto pare – il punto non è questo.


Ciò detto, le aziende in questione avrebbero avuto torto a non provarci poiché la commissione le riceverà presto. E c’è da scommettere che una mozione o un’iniziativa arriverà rapidamente in soccorso di Ruag, Mowag e colleghi.


Altri settori, altre pratiche. Da anni ormai Amnesty International chiede al Parlamento di introdurre nel Codice penale svizzero una disposizione che vieti ufficialmente la tortura. Eppure mai siamo stati invitati a condividere le nostre preoccupazioni con una commissione parlamentare. È vero che in termini di elettorato il tema non è molto interessante e che il suo impatto economico è tra i più limitati!


I nostri parlamentari devono rimanere all’erta e non lasciarsi intenerire dai piagnistei dell’industria militare. Il nostro paese non deve avallare e/o rendersi complice di violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale umanitario, ovunque queste avvengano e qualsiasi sia il prezzo da pagare per la nostra economia. La nostra legislazione, per quanto restrittiva possa essere in questo campo, non lo sarà mai abbastanza quando si parla di crimini di guerra o genocidio.

Pubblicato il

30.11.2017 14:55
Sarah Rusconi
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