La quarta rivoluzione industriale – digitalizzazione e robotizzazione dei processi produttivi – è in atto. Suo “cuore” è l’intelligenza artificiale (Ia) che consente di svolgere operazioni attuate finora solo da umani: non solo capacità di svolgere determinate operazioni velocemente secondo un programma prescritto automaticamente come fu nella precedente rivoluzione dagli anni ’70 in poi. Oggidì i robot agiscono autonomamente, senza che nessuno abbia detto loro come farlo, perché dotati di un’intelligenza propria, capace di risolvere problemi complessi in modo straordinariamente veloce e soprattutto anche di imparare. Lo ha dimostrato alphaGo di Google la primavera scorsa battendo seccamente 3 a 0 il campione mondiale di Go, un gioco complesso, molto di più che quello degli scacchi. Le applicazioni concrete sono già fra noi: guida autonoma, analisi e diagnosi mediche, di testi e loro redazione e anche sempre più programmazione. Sono destinate ad invadere ambiti di attività finora di solo dominio degli esseri umani, aprendo possibilità e opportunità finora inaccessibili. Le potenzialità sono enormi e incideranno in modo radicale sulla produzione di beni e/o servizi, oltre che sull’organizzazione del lavoro, modificando le competenze richieste, le professioni e le relative qualifiche. Industria 4.0 scombussolerà il lavoro e la sua organizzazione, creando disoccupazione tecnologica e conseguente necessità di trovare soluzioni. In passato la “distruzione creatrice”, come la chiamava Schumpeter, ovvero la soppressione di posti di lavoro in un settore, era compensata con l’aumento in un altro. Succederà anche con la presente rivoluzione? Che fare? Come le altre rivoluzioni anche questa consentirà un aumento della produttività del lavoro, ovvero minor tempo di lavoro umano per creare un’unità di bene o servizio. Ciò, a ben guardare, costituisce una minaccia e al contempo un’opportunità: ma non è una novità. Lo fece presente Keynes nel 1930, quando di fronte alla disoccupazione tecnologica causata dall’automazione affermò che tale fenomeno era accettabile: a suo parere più importante era comprendere che il progresso tecnico a lungo termine avrebbe consentito prosperità generale e riduzione del tempo di lavoro. Profetizzò che entro 100 anni 3 ore di lavoro giornaliero,15 settimanali, sarebbero bastate. Trent’anni dopo negli Usa la speciale commissione istituita dal presidente L. Johnson per studiare e formulare misure per affrontare la rivoluzione informatica, propose la formazione statale gratuita e il reddito di base per tutti i cittadini. Non se ne fece nulla. All’inizio degli anni ’80, con il diffondersi della terza rivoluzione associata alle tecnologie dell’informazione, rifece capolino la proposta di Keynes. Specialisti e studiosi anche svizzeri affermarono che la crescita di produttività avrebbe consentito di far lavorare tutti e meno. Si dipingevano scenari idilliaci: meno lavoro, stessa remunerazione, maggior tempo personale e per la famiglia. Sappiamo come è andata. Oggidì ci troviamo ad un ulteriore punto di svolta che offre opportunità per ottenere benefici per le persone, l’economia e l’ambiente. Il dibattito, almeno sul fronte ufficiale, langue. Assente l’idea che parimenti all’innovazione tecnologica si imponga quella del paradigma politico-economico. Per farlo e lanciare il dibattito occorrerà partire proprio dall’aumento di produttività, ponendo almeno due domande inderogabili: a) diminuzione e ridistribuzione del lavoro, b) ripartizione del reddito creato.
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