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India, tra miseria e sviluppo insostenibile
di
Emanuele Confortin
L'India continua a promuovere oltre confine l'immagine di democrazia più grande al mondo. Poco importa se la misura della grandezza scaturisce da un calcolo numerico, ovvero da quel miliardo e duecento milioni di persone che oggigiorno condividono la stessa capitale, una decina di religioni, almeno 16 lingue ufficiali, un'infinità di gruppi etnici e troppi focolai di insurrezione tenuti a bada dall'esercito.
Per consolidare il suo marchio di "democrazia più grande al mondo", New Delhi adotta riforme agricole, stanzia ingenti fondi per lo sviluppo industriale nelle aree rurali, o approva leggi che garantiscono l'istruzione gratuita per tutti. Sono senza dubbio i segni di un presa di coscienza del governo indiano, che tuttavia non è ancora riuscito a far valere il proprio peso nei villaggi rurali e nelle aree depresse sparsi un po' ovunque, dal nord all'estremo sud. Da quelle parti, "democrazia" è una parola priva di significato, e osservando da vicino si colgono le conseguenze della latitanza del governo centrale, le cui voragini sono state riempite dai maoisti, artefici di un sistema di controllo alternativo, sempre più radicato e ovviamente scomodo per New Delhi.
Quello che in origine era un movimento ideologico nella sua fase embrionale, limitato a pochi distretti dell'India centro-orientale, oggigiorno è esteso su 22 dei 26 stati dell'Unione Indiana come schieramento politico – nel 2009 il Communist Party of India (Maoist) è stato bandito come gruppo terroristico – e forza armata in lotta contro qualsiasi estensione del governo "semi coloniale e feudale". I territori in cui la guerriglia maoista è più diffusa prendono il nome di Corridoio Rosso, e si estendono dal West Bengal a Nordest, fino al Kerala, a Sudovest, tagliando l'India diagonalmente. Si tratta di un'area arretrata, poverissima, spesso sovrappopolata, carente di infrastrutture, assistenza sanitaria, scuole, e di tutti i servizi basilari.
Per capirne di più siamo andati nello Stato del Chhattisgarh, nel cuore del Corridoio Rosso, tra i più colpiti dall'azione dei ribelli. Nei distretti del Bastar e nel vicino Dantewada, l'esercito maoista gode di ampio appoggio tra la popolazione tribale (qui in larga maggioranza), che vede nell'adesione alla lotta armata una forma di autodifesa dalla miseria e dallo sfruttamento. Poco importa se i metodi usati per sostenere la "causa" implicano omicidi, estorsione, ricatto, traffico di droga e crimini di altro genere, l'importante è colpire il "nemico", individuato soprattutto nelle autorità pubbliche. Nel Chhattisgarh, come in Orissa e in altri stati vicini, è in corso una massiccia azione di espansione, operata dalle multinazionali indiane con l'appoggio del governo. Non è un caso, infatti, se gran parte del Corridoio Rosso è ricco di risorse naturali, indispensabili per sostenere lo sviluppo dell'economia indiana. Minerali come ferro, rame, bauxite, uranio, mica, carbone, poi legnami, gas e grandi fiumi sui quali erigere dighe, bastano a giustificare l'abbattimento indiscriminato delle foreste, trasformate in miniere a cielo aperto o poli industriali.
Tuttavia, quello che l'India spaccia come sviluppo di aree depresse, in realtà non favorisce in alcun modo le popolazioni locali, e spesso le danneggia, mettendone a repentaglio l'esistenza. Nel caso del Chhattisgarh, dal 2005 ad oggi migliaia di villaggi sono stati rasi al suolo dalle forze di polizia, e gli abitanti confinati in campi di raccolta a chilometri di distanza, recintati da filo spinato, con la scusa di dover isolare e combattere i maoisti. Ciò sta accadendo soprattutto in Dantewada, dove, come mi spiega Javed, giornalista di Hyderabad tra i più informati in materia, «è in atto una strategia per liberare le terre dalla presenza dei tribali», rendendone possibile lo sfruttamento. Non è un caso, che alcune grosse società indiane abbiano da tempo sottoscritto contratti miliardari con il governo, in cambio di concessioni minerarie sulle stesse zone in cui avvengono le deportazioni.
Se non bastasse, il sospetto della pianificazione a tavolino è giustificato da una legge costituzionale, nota come "Fifth Shedule", che garantisce ai tribali il diritto a percepire interessi o compensi dallo sfruttamento delle loro terre. Diritto destinato a cadere se i tribali le abbandonano, andando a vivere altrove, magari in un accampamento sorvegliato dalla polizia. Secondo gli esperti, la vera lotta al maoismo passa attraverso lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di vita nel Corridoio Rosso, limitando il più possibile le azioni di polizia e la militarizzazione delle aree tribali. Quindi, se il maoismo indiano è realmente avverso ad ogni forma di sviluppo, il testimone passa al governo, cui spetta il compito di promuovere immediatamente modelli di crescita sostenibili.
Se non ce la faccio mi ammazzo
L'economia indiana continua la sua crescita inesorabile, avvicinando a lunghe falcate la rivale Cina. Secondo gli esperti, il merito di questo successo dipende anche dalla struttura delle imprese indiane, in gran parte di piccole dimensioni, che grazie alla loro flessibilità sono riuscite a superare la crisi in tempi rapidi e senza pagare un dazio troppo salato.
Più della metà del ragguardevole prodotto interno lordo indiano è originato da aziende di dimensioni ridotte, in gran parte a conduzione famigliare, solitamente tramandate di padre in figlio da generazioni, sebbene con i dovuti adattamenti alle mutevoli esigenze di mercato. E l'asse portante dell'economia è legato al mondo dell'agricoltura, che in India costituisce ancora l'attività più diffusa. Vero che nuovi settori si stanno facendo strada, in particolare servizi di outsourcing, informatica e meccanica di precisione, solo per citarne alcuni. Attività concentrate a ridosso delle grandi metropoli, che fungono da magneti per gli abitanti delle aree rurali, in particolare i giovani, attirati dalla possibilità di chiudere con uno stile di vita percepito come obsoleto.
Il lusso di decidere per il proprio futuro però, non è riservato ai membri delle famiglie più povere, legate al lavoro agricolo di sussistenza o all'attività di braccianti per i proprietari terrieri, verso i quali devono corrispondere una quota periodica per l'affitto delle aree coltivate. Poco importa se le annate vengono rovinate da siccità, incendi, inondazioni o carestie, in ogni caso i debiti per gli affitti, per l'acquisto di sementi e per altri servizi accessori vanno pagati, anche quando il raccolto è magro e di soldi non ce ne sono. Ciò innesca un meccanismo perverso, che incatena migliaia di famiglie ai propri creditori, portando ad una forma di schiavitù non dichiarata, per uscire dalla quale, quando la contrazione di altri debiti non basta, la soluzione scelta da molti è il suicidio.
Le statistiche dei centri di ricerca indiani parlano chiaro. Il più attendibile è il National Crime Records Bureau, che ogni anno stila la lista dei suicidi per disperazione o debito commessi dai contadini indiani. Si parla di almeno 200 mila casi avvenuti in 11 anni, dal 1997 al 2008 (i dati complessivi del 2009 non sono ancora disponibili), il 67 per cento dei quali concentrati nei 5 stati più grandi dell'Unione Indiana: Madhya Pradesh, Maharshtra, Chhattisgarh, Andhra Pradesh e Karnataka. Il primato dei suicidi da debito spetta al Madhya Pradesh, area rurale di vaste dimensioni che si estende nel cuore del paese, dove, come riportato con ottimismo qualche tempo fa dall'agenzia di informazione Press Trust of India, nel 2009 i casi sono stati "appena" 966. Una netta riduzione, se rapportata ai 1'147 sucidi del 2008 e ai 1'246 del 2007, subito spacciata come un successo nazionale nella lotta alla povertà. Poco importa se il metodo di calcolo è totalmente arbitrario e parziale, in quanto esclude le donne suicide, considerate casalinghe e non "operatrici agricole" solo perché dopo 10 ore piegate sotto il sole sui campi ne passano altre 6 ad accudire casa e figli. Dai tabellini numerici mancano anche i fuoricasta, i tribali e soprattutto gli agricoltori non registrati, quelli che lavorano in nero.
Dalle statistiche emerge che gli agricoltori indiani non si tolgono la vita in modo omogeneo durante l'anno, ma scelgano periodi particolari, durante i quali si verificano delle ondate di suicidi. Il primo picco è tra gennaio e febbraio, quando i contadini cercano di vendere i raccolti, e spesso si rendono conto che i prezzi di mercato sono calati, oppure è scesa la produzione, per cui quanto guadagnano non basta a pagare i debiti (e gli interessi, spesso a tassi da usura) contratti l'anno prima. La seconda ondata di suicidi avviene tra aprile e maggio, nel periodo in cui servono soldi per acquistare sementi, attrezzature, pagare affitti e tutto il resto, per cui vengono contratti gli stessi debiti saldati o ridotti pochi mesi prima, i quali spesso vanno ad aumentare ulteriormente il capitale dovuto ai creditori. Infine, l'ultimo picco si concentra tra settembre e ottobre, quando le piante sono cresciute e i contadini si muniscono di pesticidi per preservare le piante dalle aggressioni degli insetti, cadendo però nella tentazione di togliersi la vita usando le sostanze chimiche come veleno.
Prima dell'estate 2009, il governo indiano aveva annunciato che l'annata agricola in corso (fino ad allora) prometteva ottimi risultati. Previsione smentita pochi mesi dopo, quando un monsone ingeneroso, ha trasformato la prospettiva di raccolti abbondanti, in un vicolo cieco per decine di migliaia di famiglie. A New Delhi va riconosciuto l'effettivo impegno speso nel tentativo di azzerare i debiti agricoli, assieme agli sforzi fatti per introdurre nuovi modelli di agricoltura, i quali però non sembrano ancora sufficienti per ottenere la svolta auspicata.
Pubblicato il
23.04.10
Edizione cartacea
Anno XIII numero 6
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