«Tutto questo un giorno sarà tuo». Se le parole esatte non sono esattamente queste, poco ci manca. Quando l’allora segretario generale della Cgil Sergio Cofferati salutò dal palco i tre milioni di uomini e donne che riempivano il Circo Massimo e l’intero centro storico di Roma per manifestare in difesa dell’articolo 18 e dei diritti sul lavoro, sociali e di cittadinanza, si rivolse al suo vice e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Gli stava passando il testimone, un’eredità "pesante" che deve aver fatto tremare le vene ai polsi al successore del "cinese". Oggi che il passaggio in Cgil è avvenuto, Guglielmo Epifani è al suo battesimo con milioni di lavoratori e lavoratrici, di pensionati, di cittadini orfani di una sinistra politica che guardano alla Cgil come un argine alla deriva dell’Italia.
Il 18 ottobre non sarà più soltanto il centro di Roma ma cento città italiane a essere occupate dalle manifestazioni per i diritti, nel primo grande sciopero della Cgil da sola. Non avveniva da decenni, dai tempi della rottura sindacale degli anni Cinquanta e Sessanta, che il sindacato che fu di Di Vittorio riempisse le piazze italiane dopo aver svuotato fabbriche e uffici senza avere al fianco la Cisl
e la Uil, irretite dalle promesse del presidente Silvio Berlusconi e dall’illusione di poter condividere le scelte e concertare e cogestire con le destre e con la più reazionaria Confindustria che si ricordi.
Il diritto al lavoro è il primo dei diritti violati da un governo ubriacato dai sogni della finanziarizzazione e dai falsi miracoli della new e della net economy e dal capitalismo straccione made in Italy, che con la complicità dell’esecutivo procede allo smantellamento di tutti i comparti industriali, l’ultimo appunto l’automobile. Ma lo sciopero del 18 ottobre è uno sciopero per l’Italia, in difesa di tutti i diritti, a partire da un numero simbolo che ha rimesso in movimento mezzo paese dietro le bandiere della Cgil. Il numero è il 18, l’articolo dello Statuto dei lavoratori che prevede il reintegro nel posto di lavoro di qualsiasi persona licenziata senza giusta causa. Siccome il capitale non vuole lacci e lacciuoli il governo ha messo in mora questo diritto, cosicché se un giudice darà torto a un padrone per un licenziamento ingiusto, quel padrone d’ora in poi potrà pagare il lavoratore che ha subito il torto ma non sarà più costretto a riprenderselo in azienda.
E’ il trionfo della cultura meneghina dei "dané", con cui tutto si può. Lo scontro politico è ancora in atto in sede parlamentare, dopo la firma del Patto per l’Italia che con la complicità di Cisl e Uil ha violentato la legislazione sul lavoro forse più avanzata d’Europa. Lo scontro sociale è in piazza, e nei luoghi di lavoro: la Cgil, prima dello sciopero generale del 18 ottobre ha già raccolto più di tre milioni di firme che una volta cancellato formalmente l’articolo dello Statuto serviranno a indire un referendum per ripristinare lo status quo ante. L’obiettivo è la raccolta di almeno cinque milioni di firme, e c’è da scommettere che sarà conquistato.
L’uguaglianza al ribasso
L’aggressione del governo Berlusconi alla legislazione del lavoro non si ferma certo all’articolo 18. Con le deleghe concesse al ministro leghista Roberto Maroni si è avviato un processo di regulation senza precedenti, finalizzato alla costruzione di una nuova uguaglianza al ribasso, l’opposto esatto della politica rivendicata dalla Cgil e dai movimenti che negli ultimi mesi si sono riappropriati della politica, dai social forum contro la globalizzazione ai "girotondini" per l’autonomia della magistratura e la libertà dell’informazione oggi tutta - pubblica e privata - racchiusa nelle mani di Berlusconi. La Cgil chiede l’estensione dei diritti a tutti, dalle grandi aziende alle piccole e medie, mettendo un argine ai processi liberisti che sposano la globalizzazione capitalistica rendendo impossibile controllare o anche solo conoscere la filiera del lavoro, estesa e frantumata. Il governo obbedisce agli industriali che pretendono più e non meno flessibilità in un paese in cui la deregulation, grazie anche a D’Alema e ai governi di centrosinistra, è andata fin troppo avanti. Nella stessa fabbrica trovi lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a termine, lavoratori venduti a società terze, lavoratori in affitto, lavoratori in contratto di formazione lavoro. Tutti fanno lo stesso lavoro nello stesso luogo ma guadagnano cifre diverse, restano in fabbrica con orari diversi, hanno o non hanno diritti sindacali, di assemblea, di sciopero, di ammortizzatori sociali, di garanzie per il futuro, di pensione. A parità di prestazione lavorativa, diversi trattamenti. Ecco l’Italia del 2001, a cui si vogliono dare altre batoste per indebolire ulteriormente le relazioni tra le persone e spostare tutto il potere nelle mani del capitale.
È contro questo processo che il 18 la Cgil ha chiamato allo sciopero e a manifestare in tutti i capoluoghi di provincia italiani. Parafrasando i no global, si può dire che il 18 serve a dimostrare che un altro mondo, un altro modo di lavorare, e di fare economia è possibile. Anzi, è necessario. L’attacco va ben al di là dei rapporti di produzione e della loro modificazione per farci riprecipitare alle origini della rivoluzione industriale, quando il lavoro altro non era che una variabile dipendente del capitale. L’attacco è allo stato sociale, al welfare italiano. Sotto botta sono tutti i servizi fondamentale che lo stato dovrebbe garantire ai cittadini. Il diritto alla salute rischia di diventare un ricordo del Novecento, e i tagli dei fondi alle regioni, alle provincie e ai comuni previsti dalla legge Finanziaria saranno il colpo di grazia. La scuola vogliono trasformarla in un’azienda, un po’ fabbrica e un po’ parrocchia cattolica, cancellando il dettato costituzionale che prevede il diritto all’istruzione per tutti, a prescindere dal reddito, dalla fede, dal colore della pelle. Per non parlare delle pensioni, su cui ormai da troppi anni si scaricano tutte le accuse possibili e immaginabili. Si vogliono abolire le pensioni di anzianità, magari nel prossimo Dpef o nella prossima Finanziaria. Dopodiché, si parla di prepensionamenti nelle industrie in crisi, ed è proprio il caso della Fiat.
Il vuoto stagno dell’opposizione
Di ragioni per scioperare con la Cgil il 18 ce ne sono fin troppe. Anche perché, il vuoto stagno dell’opposizione politica priva i cittadini e i movimenti democratici di qualsivoglia rappresentanza politica. I Ds sono spaccati su tutto, dalla guerra all’articolo 18, dallo sciopero generale della Cgil alla crisi della Fiat (proprio nei Ds, oltre che in Confindustria, si trovano i più appassionati oppositori a un intervento pubblico nel capitale privato per orientare le scelte, salvare la produzione e i lavoratori). I Ds sono divisi dalla Margherita, in modo diretto e trasversale sugli stessi temi. E se l’Onu dovesse sciaguratamente dare il via libera alla guerra di Bush contro l’Iraq, gran parte dell’opposizione politica a Berlusconi finirebbe per mettersi l’elmetto e votare insieme a Berlusconi, concedere basi, soldi, aerei, bombe e soldati alla più pericolosa e odiosa delle guerre. Con il risultato che il parlamento di un paese a stragrande maggioranza contrario alla guerra voterebbe a stragrande maggioranza a favore della guerra.
È dunque comprensibile che sulla Cgil vengano riposte tante speranze e deleghe. E dunque ovvio che tra le parole d’ordine del 18 ce ne sarà una che metterà insieme tutte le forze e tutte le culture che non hanno più rappresentanza politica: "No alla guerra, senza se e senza ma". È la parola d’ordine di Emergency, l’organizzazione fondata da Gino Strada che aderisce allo sciopero del 18, così come gran parte dell’associazionismo laico e cattolico, così come i sindacati di base (i Cobas), i no global, il mondo del volontariato e della cooperazione. Inutile chiedersi cosa c’entri la guerra con i diritti. Per usare le parole di Gino Strada, "il primo dei diritti è il diritto alla vita". |