Quando la destra comanda e la sinistra balbetta, spesso tocca alla magistratura il compito di difendere le fondamenta della convivenza civile, la stessa democrazia. Ma non sempre le cose vanno nella direzione sperata. È il caso della bocciatura del testo referendario, sostenuto de quasi tutte le opposizioni, che chiedeva l’annullamento della legge sull’autonomia differenziata fortemente voluta dalla Lega di Salvini e sostenuta dal governo Meloni. Una legge che se realizzata aggraverebbe le divisioni tra regioni ricche e regioni povere aumentando ingiustizie e disparità già esistenti su temi sociali caldi, dall’istruzione alla salute e nella gestione dell’economia. Una legge che violerebbe il mandato costituzionale. La Corte costituzionale ha bocciato il quesito, ma non perché le preoccupazioni dei richiedenti non avessero fondamento bensì perché il testo della cosiddetta legge Calderoli era già stato fermato dalla stessa Corte che ne ha chiesto modifiche radicali riguardanti i LEP, i livelli essenziali di prestazione che devono essere garantiti a tutte le cittadine e i cittadini italiani, che abbiano la fortuna di vivere in Valle d’Aosta o in Lombardia, oppure risiedano in regioni più svantaggiate, in Calabria o in Sardegna. L’altro aspetto che aveva fermato l’iter della legge riguarda le procedure democratiche (tocca al Parlamento e non al governo fissare le regole). Una legge da riscrivere Dunque, la Consulta non dà ragione alle destre festeggianti, semplicemente spiega che non si può fare un referendum su una legge che ancora non è stata riscritta. Il neoletto presidente della Corte costituzionale, Giovanni Amoroso, ha voluto spazzar via ogni dubbio al proposito per evitare equivoci e frenare la gioia di Salvini, Meloni e camerati vari: della legge Calderoli resta in vita “solo un perno, spetta al Parlamento ricostruire l’edificio a partire dall’individuazione dei LEP”. In parole povere, la legge divisiva sull’autonomia differenziata dev’essere riscritta per intero nel rispetto dei fondamenti della Costituzione. Sorte diversa, per fortuna, è toccata agli altri 5 quesiti referendari a cui la Corte ha dato il via libera. Si terranno a primavera in una data da definire. Un referendum, voluto in primis da +Europa, riguarda la concessione della cittadinanza italiana e chiede il dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale necessari per richiederla, e una volta ottenuta sarebbe automaticamente estesa ai figli e alle figlie minorenni. Qualora questo testo venisse approvato segnerebbe una radicale battuta d’arresto della politica razzista del governo Meloni che ha alzato muri blindando frontiere terrestri e marine e firmato accordi indecenti con paesi illiberali per bloccare l’immigrazione. Leggi illiberali e violazione delle leggi internazionali: è di questi giorni la liberazione del capo della polizia giudiziaria libica Najeem Osama Almasri sul quale pende un mandato di cattura internazionale spiccato dalla Corte penale dell’Aja per crimini di guerra e contro la dignità umana, stupro e omicidio. Arrestato a Torino da solerti poliziotti al termine di una partita della sua squadra del cuore, la Juventus, il capo dei torturatori di migranti con cui l’Italia ha firmato un patto della vergogna e a cui diamo i soldi per l’allestimento e la gestione dei lager è stato rimesso in libertà su ordine del ministro degli interni Piantedosi e riportato a Tripoli con un aereo dello Stato italiano. Non basta: il governo ha annunciato che qualora Benjamin Netanyahu, inseguito anch’egli da un mandato di cattura internazionale per il genocidio di Gaza, decidesse di venire in Italia non verrebbe arrestato come invece richiesto dalla Corte di giustizia dell’Aja. Obiettivo smontare il Jobs Act Gli altri 4 quesiti riguardano le leggi sul lavoro, 4 referendum voluti dalla CGIL, forte di 4 milioni di firme raccolte. L’obiettivo è smontare l’intero impianto del jobs act partorito da Matteo Renzi quando era presidente del consiglio nonché segretario del PD, una picconata fatale allo Statuto dei lavoratori con la cancellazione, tra l’altro, dell’articolo 18 che garantiva il rientro sul posto di lavoro di chi fosse stato ingiustamente licenziato. Il primo quesito chiede la cancellazione delle norme che hanno introdotto il contratto a tutele crescenti e condannano al licenziamento gli assunti dopo il 2015. Il secondo propone l’abrogazione del tetto massimo di indennizzo fissato per legge nei licenziamenti ingiustificati nelle piccole e medie aziende (un regalo ai padroni), restituendo al giudice il compito di fissare l’importo. Il terzo referendum propone l’abolizione delle norme che hanno liberalizzato i contratti a tempo determinato. Il quarto, non certo per importanza, riguarda gli appalti e i subappalti e chiede l’abrogazione delle norme che in caso di infortuni deresponsabilizzano l’impresa committente. Una battaglia tutta in salita Si può festeggiare per aver superato la verifica della Corte costituzionale, almeno per i 5 referendum ritenuti ammissibili? Meglio essere cauti, la battaglia inizia ora ed è tutta in salita. L’obiettivo primario è raggiungere il quorum del 50% dei votanti perché il risultato sia valido. È lo scoglio più impervio, in un paese in cui va a votare meno della metà degli aventi diritto. Inoltre, il referendum che avrebbe prodotto un effetto traino su tutti gli altri, quello contro l’autonomia differenziata, è venuto meno. Terzo scoglio, le divisioni interne alle opposizioni che già si manifestano in particolare sui quesiti sul lavoro: il problema non è tanto Renzi, autore del vulnus rappresentato dal job act, quanto il PD dove il vento renziano continua a soffiare senza tregua e fa sì che, paradossalmente per coerenza di chi quella legge in passato ha votato, una parte significativa del partito si esprima contro i referendum rendendo ancora più arduo il raggiungimento del quorum. Del resto, è la stessa “coerenza” con cui la destra del PD (i cattolici e i riformisti che sabotano tutte le timide svolte di Elly Schlein) continua a sostenere la politica estera, atlantica e guerrafondaia di Giorgia Meloni. Anche se, va detto per onestà, sull’invio di armi all’Ucraina è d’accordo la totalità del gruppo dirigente di quel partito. Ciononostante, essendo i 5 referendum fondamentali per ripristinare un minimo di dignità alla vita sociale e lavorativa del Paese, varrebbe la pena provare a vincerli e per questo servirebbe una mobilitazione straordinaria di tutte le forze sociali democratiche, dei movimenti, di quella che un tempo si chiamava sinistra. C’è sempre domani. |