In carcere l’utopia è concreta

«La ricerca consiste nell’eliminare il superfluo, per riscoprire ogni volta, ogni giorno, la funzione originaria del teatro, scoprendo un linguaggio nuovo, che si nutre di fatti concreti della vita». Basta questa frase del regista napoletano Armando Punzo per dire dell’originalità e nel contempo della necessità per il teatro contemporaneo di un gruppo come la Compagnia della Fortezza, attiva nel carcere di Volterra. Essa fu costituita nel 1988 da Punzo che, stufo del sistema teatrale tradizionale, cercò nella prigione nuovi sbocchi per la sua creatività e un ambiente in cui proseguire la sua ricerca artistica senza le costrizioni del mercato. Gli attori sono tutti detenuti che stanno scontando pene di lunga durata nel carcere di Volterra, e oggi la Compagnia della Fortezza è uno dei gruppi di punta del nuovo teatro italiano ed europeo. Agli spettacoli che si svolgono nel cortile del carcere per poche giornate in luglio accorrono sempre i più rinomati critici, ma da qualche tempo quelli della Fortezza possono andare regolarmente in tournée fuori dal carcere, raccogliendo ovunque ampi consensi e non pochi premi, anche prestigiosi. Due anni fa, in un’intervista pubblicata su area, Punzo ci parlò del suo obiettivo di allora, il riconoscimento del lavoro di attore in carcere come un mestiere. Ora che questo obiettivo è stato parzialmente raggiunto facciamo con lui un primo bilancio, interrogandoci pure sul senso del teatro in carcere e sulla necessità di una sfida così radicale sia al sistema carcerario che a quello teatrale. Armando Punzo, il lavoro degli attori della Compagnia della Fortezza è stato riconosciuto dalle autorità carcerarie come attività professionale. Che cosa significa concretamente? In primo luogo che i detenuti non devono più scontare dai giorni di permesso il tempo passato fuori dal carcere per le rappresentazioni. Poi che possiamo assumere e pagare i detenuti, come normali attori, almeno per il tempo necessario a fare le repliche degli spettacoli. Questo è un cambiamento radicale di prospettiva: si esce dalla condizione di attività del tempo libero per imboccare la strada della professionalità, dando una prima concretezza a chi da anni lavora in questa compagnia. Il riconoscimento ottenuto poi ha dato nuovo slancio alla compagnia, confermando ai detenuti attori che tutti questi anni di lavoro non sono stati vani, né per sé stessi, né per chi verrà dopo. Questo cambiamento di status dei suoi attori ha modificato il suo approccio con loro? È difficile rispondere, ma credo di no. Nel gruppo ci sono persone che lavorano con me da molti anni, per cui anche artisticamente siamo cresciuti insieme, condividendo progetti e idee. Questo porta il gruppo a capire sempre più l’idea che sta dietro ad un percorso, e quindi a fare cose sempre più interessanti e con una più profonda consapevolezza. Non abbiamo mai presentato il percorso che avremmo voluto fare come difficile se non impossibile: semmai prima abbiamo fatto le cose che volevamo fare, poi le abbiamo spiegate. Così prima li abbiamo fatti lavorare come professionisti, ora poniamo e risolviamo il problema della professionalità dei nostri attori. In questo senso, per le elevate esigenze poste loro da parte mia lungo tutto il cammino percorso finora, il riconoscimento è soltanto la logica conseguenza e non il presupposto di un atteggiamento professionale. Come si pone la Compagnia della Fortezza rispetto al lavoro teatrale svolto in carcere in altri paesi europei? Io sono sempre stato radicale nel confrontarmi con altre esperienze di teatro in carcere, ma con gli anni mi sono reso conto che questo mio atteggiamento in realtà era una sorta di protezione nei confronti della nostra esperienza. La nostra è stata una scelta di percorso radicale, che credo non abbia eguali in Europa, ma non è detto che tutti la debbano fare. Ci sono anzi diversi modi in Europa di fare teatro in carcere, ognuno con la sua importanza e il suo valore. Quindi farsi la domanda degli obiettivi che uno si pone andando in carcere a fare del teatro è un falso problema: l’approccio sociale piuttosto che quello artistico possono comunque condurre a esiti artistici elevati? Io sarei portato a dire che si deve entrare in carcere affrontando il lavoro da un punto di vista strettamente artistico. Perché questa è la mia storia. Ma c’è un motivo culturale in questo: mi sono reso conto che quando si entra per altri motivi, questo significa essere già inglobati in una mentalità comune che vede la diversità (come può essere la condizione carceraria) aperta soltanto ad attività sociali. Se invece si ha la pretesa di entrare come esperienza artistica all’interno di una struttura chiusa, si ottiene un effetto dirompente perché si portano delle esigenze che per quella struttura sono assurde. Questo aumenta a sua volta la possibilità di ottenere un elevato risultato sociale che chi parte con un approccio sociale, proprio perché simbiotico con il sistema, non ottiene: egli infatti non mette in crisi i tre poli costitutivi dell’esperienza, cioè i detenuti, l’istituzione e chi da fuori porta l’esperienza. Questa è la nostra linea, e ho visto che dà risultati concreti: un carcere che, come quello di Volterra, era tra quelli di massima sicurezza con un approccio al detenuto estremamente punitivo, oggi è stato trasformato. Un’utopia concreta: partendo dai fatti e non dai progetti. Il prossimo obiettivo concreto? È ancora un piccolo passo. Ora gli attori sono pagati solo per le repliche che facciamo fuori dal carcere ma non per tutto il lavoro di preparazione degli spettacoli, in sostanza da settembre a luglio: su tutto questo arco di tempo siamo assoggettati all’art. 17 del regolamento carcerario, che definisce l’attività educativa. Perché non si potrebbe equiparare il nostro lavoro almeno a quello delle più comuni compagnie di teatro professioniste che su una nuova produzione lavorano uno o due mesi, e almeno questi retribuirli? In Europa ci sono intere compagnie composte da detenuti pagate per il loro lavoro creativo. Da noi invece quel che precede lo spettacolo sembra frutto del caso. Lei lavora relativamente poco fuori dal carcere. Non ne sente il bisogno? Io non faccio questo lavoro per andare a lavorare fuori: lo faccio perché mi piace e m’interessa. Quando è possibile lavoro anche fuori dal carcere ma a condizione di sentirne davvero il bisogno: per lavorare fuori infatti devo lasciare il carcere, e questo mi pesa. Anche perché la mia esperienza nasce da una sorta di rifiuto rispetto al normale produrre teatro, al solito giro di attori e produttori. In carcere ho trovato una condizione che mi appartiene, in cui mi riconosco. Credo sia uno dei posti in cui sto meglio, dove riesco a realizzare quel che voglio, dove ho rapporti con le persone aperti e chiari, dove, anche se in mezzo a milioni di complicazioni e problemi, posso essere e realizzare quel che voglio: è un centro vitale che mi appartiene, che è profondamente dentro di me. In tante altre situazioni invece devo mediare. In carcere inoltre c’è una parte di me che si riconosce e che continua ad interrogarsi su sé stessa e chiede risposte: torniamo al discorso sulla diversità. Questa sua diversità paragonabile a quella dei detenuti ha a che fare con la sua origine meridionale, uguale a quella della maggioranza della popolazione carceraria italiana? Ha a che fare con le mie radici, con la mia infanzia, con il mio modo di essere e di pensare. Va però anche oltre. In qualche modo, per quanto assurdo, mi riconosco nella condizione dei detenuti, anche nello stato di perenne sospensione che vivono. Mi riconosco nelle origini del sud, ma anche nelle difficoltà di adattamento rispetto al mondo. Nel loro caso questa difficoltà ha preso la direzione di scelte delinquenziali, la mia ha imboccato percorsi più artistici, ma alla base c’è sempre un rifiuto rispetto a qualcosa che non andava. Un’identica radicalità dunque? In qualche modo sì, anche se con espressioni chiaramente diverse. Per questo non condivido l’atteggiamento di quegli artisti e operatori culturali che hanno un approccio all’arte e alla cultura più da intrattenimento, che accettano il mondo così com’è e quindi si calano nel ruolo dei buffoni, degli intrattenitori, di quelli che riempiono i buchi rassicurando il pubblico e nel contempo compiacendo sé stessi. Quando vedo che i detenuti hanno una necessità di comunicare, di comprendere chi sono e perché, che cosa è successo loro, io lì mi ritrovo, in questa disperazione, in questa fame di sentirsi diversi e altro da sé. Quindi è sbagliato porsi il problema se uno spettacolo visto nel carcere di Volterra emoziona per la situazione oppure no: fa parte della sua condizione intrinseca? È normale che parte dell’emozione sia legata alla situazione, sarebbe stupido negarlo, anche se noi vogliamo andare oltre. Del resto tutto l’interesse nato attorno a questa esperienza non è spiegabile soltanto con la situazione: c’è anche interesse per cosa diciamo e per come lo diciamo. Il problema è un altro, cioè che è il teatro fuori a non essere più dirompente. Il teatro fuori non ha più necessità? No, perché la società l’ha istituzionalizzato. Il problema è che l’emozione che uno vive arrivando nel carcere di Volterra per vedere uno spettacolo dovrebbe provarla anche entrando in un teatro, ma oggi questo non accade. Ho dovuto uscire dal teatro e entrare in carcere per far sì che a teatro potesse accadere di nuovo ciò che sempre vi dovrebbe avvenire. Fuori il teatro ci riesce ancora di rado, quando il drammaturgo sa scavare nel sommerso, quando tutto è rimesso in discussione. È la marginalità la condizione necessaria? Forse dovrebbero abbattere tutti i teatri: dal momento che vengono istituzionalizzati perdono la loro forza. Gli artisti dovrebbero avere il coraggio di ammettere la loro inutilità, invece anche quando non hanno nulla da dire sono lì ad imporsi nei loro teatri e si lamentano anche quando hanno tutto assicurato. Si licenziassero ed andassero a cercare l’energia che era all’origine del loro lavoro. Tanti che fanno teatro partono con una necessità, ma molti poi si spalmano, si arrendono, rinunciano. Si fa teatro in otto prigioni su dieci Circa nell’80 per cento dei carceri europei si fanno esperienze di attività teatrale. Questo è il primo dato, sorprendente per l’ampiezza e la diffusione del fenomeno che descrive, di una ricerca che sta conducendo la rete europea Teatro e carcere, nata per iniziativa del gruppo che anima la Compagnia della Fortezza, attiva nella prigione di Volterra. Si tratta di un dato parziale, relativo allo spoglio di circa un centinaio di questionari rientrati sui 205 spediti alle direzioni carcerarie di mezza Europa. Molto variegati sono i modelli organizzativi applicati, che vanno dal dirigismo più marcato fino all’autogestione dei detenuti nella loro attività teatrale. E tre sono i principali problemi emersi: come garantire continuità alle esperienze teatrali in carcere, quali finanziamenti sono disponibili e come rapportarsi con l’esterno, essendo il pubblico una componente imprescindibile di ogni attività teatrale. La rete Teatro e carcere riunisce alcune esperienze europee di punta i cui obiettivi per quanto concerne la professionalità del lavoro e la resa qualitativa degli spettacoli sono paragonabili a quelli, elevatissimi, della Compagnia della Fortezza. Stimolati dal lavoro svolto a Volterra negli ultimi dieci anni sono nati diversi gruppi, come il Teatro Yeses di Madrid, il Théâtre de l’Opprimé di Parigi (che lavora nell’ambito di ogni forma di esclusione e marginalità), il Riks Drama Riksteatern di Stoccolma (nato dal desiderio di alcuni carcerati di lavorare con il drammaturgo Lars Noren per interrogarsi sulla loro stessa condizione), l’Aufbruch di Berlino e l’Escape Artists di Edimburgo. Benché il teatro sia considerato oggi uno degli strumenti di risocializzazione più efficaci, la stragrande maggioranza di tutte queste esperienze fatica molto a trovare visibilità. Il problema principale praticamente in tutti i paesi europei è l’inadeguatezza del sistema legislativo e dei regolamenti carcerari. Questo impedisce soprattutto di portare in carcere nuovi metodi di formazione professionale sperimentati con successo fuori dal carcere. Di fronte all’ipotesi di una possibile riqualificazione professionale nel mondo dello spettacolo per chi in carcere fa del teatro, questo è un grosso ostacolo anche all’attività teatrale come strumento di risocializzazione. Ma è proprio dello scorso anno il primo studio per uno spettacolo allestito da Armando Punzo della Compagnia della Fortezza con un detenuto in semilibertà: si tratta di “Il libro della vita” interpretato da Mimoun El Barouni.

Pubblicato il

03.02.2006 04:00
Gianfranco Helbling