Ci risiamo, rieccoci qui, con la solita cantilena che a molti fa ormai alzare gli occhi al cielo: in Svizzera, le donne continuano a guadagnare meno degli uomini. Non per competenze inferiori, non per minore esperienza, ma per il semplice fatto di essere donne (fatto che semplice, poi, non è così tanto). La Legge federale sulla parità dei sessi (LPar), in vigore dal 1996 e rivista nel 2020, non ha inciso in modo significativo. O meglio, diciamolo: non ha inciso affatto. Così, ad alzare gli occhi al cielo, non sono stati solo quelli stufi di sorbirsi la solita litania sulle donne che guadagnano meno, o quelli del “se volete la parità, allora leva obbligatoria anche per voi”, ma pure una Coalizione contro la discriminazione salariale che si è determinata, poi, nell’indirizzare al Consiglio federale una lettera aperta. Composta da oltre 50 organizzazioni della società civile, del mondo sindacale e politico, tra cui Unia, Travail.Suisse e l’Unione sindacale svizzera, la Coalizione chiede una cosa chiara: misure efficaci contro la discriminazione salariale e una nuova revisione della legge sulla parità. La revisione della legge risalente al 2020 obbliga solo le imprese con almeno 100 dipendenti ad effettuare un’indagine interna dei salari per individuare eventuali disparità retributive. Peccato che la norma non preveda però alcuna sanzione in caso di irregolarità, condannando così un principio civile a rimanere lettera morta; a rilevarlo è stato lo stesso Consiglio federale che, lo scorso marzo, aveva pubblicato i dati relativi ai controlli effettuati dalle imprese: un quinto di esse non analizza i salari, un terzo non verifica le analisi svolte e la metà non le pubblica. Il risultato è desolante: la discriminazione salariale, anziché diminuire, è aumentata, e nella lettera aperta della Coalizione si legge chiaramente: “Finché non verranno adottate e attuate misure efficaci contro la discriminazione salariale, ogni donna in Svizzera continuerà a perdere, in media, circa 8.000 franchi di salario all’anno”. A parità di formazione e mansioni, il 55% delle discriminazioni salariali non si spiega con criteri oggettivi, vale a dire: il salario è inferiore perché a percepirlo è una donna. Nel settore privato, inoltre, il divario salariale raggiunge il 17,5%, mentre nei rami della salute e della socialità si arriva praticamente al 19%. A denunciare questi numeri impietosi, a inizio giugno, è stato anche il sindacato Unia, la cui presidente Vania Alleva ha affermato che “non ci può essere nessuna parità di genere senza salari equi”, che costituiscono cioè la base politica, sociale ed economica minima per un Paese che voglia definirsi democratico. Eppure, gli interventi tardano: da qui l’appello urgente della coalizione affinché il Consiglio federale pubblichi il rapporto di valutazione della revisione della Lpar – effettuato ma tuttora non pubblicato – e intervenga per colmare le evidenti lacune normative. Si chiede, in particolare, di estendere l’obbligo di analisi salariale alle imprese con almeno 50 dipendenti, di imporre la ripetizione regolare delle verifiche ogni quattro anni, di obbligare le aziende a comunicare i risultati al personale e soprattutto di introdurre sanzioni per chi non rispetta la legge perché, pare (e le cifre lo dimostrano), la vecchia, sana e liberale “responsabilità individuale” non stia dando frutti, o almeno non frutti accettabili. |