Dominique Manotti, l’estate francese è stata segnata dai violenti disordini verificatisi in diverse città a seguito dell’uccisione del giovane Nahel . Come è possibile che sia bastato un episodio, certo molto grave ma appunto episodico, a riaccendere le periferie? La verità e che non si tratta affatto di un evento episodico. Questo genere di assassinio, in Francia, non è raro. La polizia francese uccide regolarmente. E, nella maggioranza dei casi, le vittime sono persone di origine straniera. Si tratta di un caso unico in Europa. In Germania, negli ultimi dieci anni, nell’ambito di quello che è definito “rifiuto d’obbedire” – ossia quando un individuo fugge di fronte ad un alt della polizia – vi è stato un morto. In Francia, da tre anni a questa parte, vi è un morto al mese. Si tratta di un dato che fa rabbrividire. L’assassinio di Nahel è così stata la miccia che ha alimentato un fuoco di collera, rabbia e indignazione che brucia da tempo in quella parte della società francese che percepisce ormai la polizia come un nemico.
La risposta dello Stato, sembra essere quella del pugno di ferro. Così facendo non teme che si alimenti un pericoloso circolo di violenza? Certamente. L’esplosione di collera in seno alla società francese è ricorrente e seguiterà ad esserlo se le autorità continuano con questo approccio. Da diverso tempo a questa parte, le scelte dei vari governi sono state quelle di rispondere a tali situazioni estremamente difficili e complesse unicamente attraverso la forza. Una dinamica che si è aggravata sotto la presidenza di Emmanuel Macron. Negli ultimi cinque anni questa politica della forza viene infatti applicata non solo alle violenze dei ragazzi delle periferie, ma anche alla politica rivendicativa. Lo abbiamo visto nel caso dei gilet gialli e, più di recente, sulla questione delle pensioni o sulle lotte ecologiste: il governo non ascolta più le rivendicazioni popolari e risponde semplicemente con la forza.
In questo contesto, le forze di polizia sembrano avere un potere sempre più forte. Oggigiorno il governo francese si basa essenzialmente sulle sue forze di polizia. Ciò che è molto grave, un caso quasi unico in Europa.
Teme una deriva poliziesca? Lo temo, sì. Ne colgo dei segnali, anche dai dettagli. Dopo l’assassinio di Nahel i due principali sindacati di polizia hanno pubblicato un comunicato che mette in luce due aspetti inquietanti. Il primo è in rapporto alle relazioni con le popolazioni delle periferie, definite “les nuisibles”. È un termine incredibilmente forte che nella lingua francese designa in modo preciso una categoria di animali nocivi per i raccolti o la salute umana e che, per questo, possono essere uccisi in ogni momento, indipendentemente dalla legge sulla caccia. Definire così gli abitanti delle periferie è qualcosa di molto potente da un punto di vista simbolico. E il secondo aspetto inquietante? Alla fine del testo si dice che i poliziotti “sono in guerra” e che faranno “la resistenza e il governo dovrà prenderne coscienza”. È un testo che indirizzano ai vertici dello Stato. È una minaccia incredibile che mi fa dire che la situazione in Francia è molto grave.
Come si è arrivati a questa situazione? La prendo alla larga, ma è necessario per capire il presente. Occorre partire dalla decolonizzazione e da due elementi. Il primo è l’estrema violenza che ha caratterizzato il processo di decolonizzazione francese. Vi è stata la guerra d’Algeria, ma non solo: decine di persone, di élites africane che chiedevano emancipazione e indipendenza, sono state assassinate direttamente o indirettamente dalla Francia. Il secondo punto è che la Francia non ha mai svolto una riflessione critica su questo periodo e sulla fine del suo Impero. Il recente colpo di Stato in Niger ha messo in luce quanto queste ferite siano ancora aperte in Africa.
Ma questi aspetti in che modo si ripercuotono sulle tensioni attuali e sul ruolo delle forze di polizia? Si ripercuotono per il fatto che i metodi della polizia coloniale sono stati trasferiti sul continente. Sono stati incarnati nella creazione delle Bac – le brigate anticriminalità – la cui prima unità è stata creata nel 1971 a Seine-Saint Denis da un prefetto che aveva fatto tutta la sua carriera in Algeria. Le Bac si sono rinforzate molto a partire dagli anni Novanta e oggi sono considerate il corpo più efficace della polizia a discapito della polizia giudiziaria. Il loro metodo è quello di pacificare attraverso la paura come dimostrano i continui e umilianti controlli d’identità effettuati nei confronti dei giovani di origine straniera. Il forte razzismo nelle forze di polizia, che sfocia poi in episodi purtroppo frequenti come quello che ha portato alla morte di Nahel, ha quindi delle radici storiche che oggi si riverberano sul rapporto sempre più teso tra gli agenti di polizia e le popolazioni delle periferie.
L’avvocato della famiglia di Nahel ha spiegato che è l’intero sistema giudiziario ad essere problematico. È così? Senza dubbio vi è la sensazione di impunità di cui beneficiano le forze dell’ordine. Le istituzioni di controllo della polizia sono formate da stessi poliziotti e i giudici sono in una situazione delicata nei confronti dei poliziotti perché hanno bisogno di loro per le inchieste. Poi vi è il fatto che la parola di un poliziotto conta di più di quella di una vittima e che, di fronte a un’inchiesta, in seno alle forze dell’ordine prevarrà l’omertà e la falsa testimonianza in tutti gli anelli della catena di comando. Senza dubbio, quindi, vi è un problema a livello giudiziario. Ma vi è anche un problema politico. In che senso? Il capo della polizia nazionale ha affermato pubblicamente che nessun poliziotto può essere messo in prigione durante un’inchiesta. Si tratta di un’interferenza molto grave da parte della polizia sulla giustizia e né il presidente Macron né il ministro dell’interno hanno reagito. Rispetto al passato, i membri del governo non hanno nessun senso dello Stato.
Oltre alla questione dei rapporti tra la popolazione della periferia e le forze dell’ordine non vi è un problema più ampio, legato alla struttura stessa della società francese? Penso ad esempio al mercato del lavoro… Vi sono senza dubbio delle difficoltà legate alla precarizzazione del mondo del lavoro. In queste settimane c’è chi, tanto dal governo che dall’estrema destra, ha voluto criminalizzare i genitori dei ragazzi scesi in strada a fare casino. Ma questi genitori, spesso, fanno lavori umili e pesanti, con dei turni massacranti in un contesto totalmente abbandonato dalle istituzioni. Il tessuto sociale è distrutto a causa soprattutto del sistema neoliberale e di questo mercato del lavoro che non funziona bene.
Cosa è stato fatto in questi anni per contenere la ghettizzazione delle periferie? È stato fatto poco o nulla. Vi è stato forse qualche miglioramento da un punto di vista architettonico e urbanistico. Ma non è stata regolata la questione sociale. Il fenomeno della ghettizzazione si è anche accentuato per il fatto che le classi dominanti si isolano sempre di più. Ad esempio abbandonano la scuola pubblica. L’era della presidenza Emmanuel Macron è rappresentativa di tutto ciò: al potere vi è una classe politica formatasi in scuole private, che non ha mai preso il metrò, e che oggi è totalmente distaccata dalla realtà e dai problemi quotidiani delle persone. Dominique Manotti, un’ultima domanda: da ex sindacalista, i sindacati francesi, come stanno? Dall’estero, sul tema delle pensioni, sembra che le organizzazioni sindacali in Francia abbiano ancora una grande capacità di mobilitazione… Certo, ma la sopravvivenza dei sindacati dipende dalla loro capacità di vincere. Si può essere battuti sui fatti, ma si devono trovare alcuni punti forti sui quali portare a casa dei risultati. Sotto la presidenza Macron, ad esempio, furono soppressi i comitati sindacali che si occupavano di sicurezza sui posti di lavoro. Gli incidenti sul lavoro, come si poteva prevedere, sono così aumentati. Sono stata scioccata nel vedere a che punto in quel momento non vi è stata risposta. Era un punto sul quale i sindacati avrebbero potuto vincere. Certo era un tema meno voluminoso che la questione delle pensioni, ma non c’è neanche stata bagarre. Ripeto: la sopravvivenza dei sindacati dipende dalla loro capacità di vincere. E per ora non si vince.
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