L’ultimo passo per il completo ritorno allo statu quo ante in Egitto è arrivato con la storica sentenza che ha prosciolto l’ex presidente Hosni Mubarak dalle accuse di aver ordinato di sparare contro i manifestanti nelle rivolte del gennaio 2011. Dal giorno dell’assoluzione è continuata più dura di prima la repressione del regime: altri 188 esponenti dei Fratelli musulmani sono stati condannati a morte (portando il numero di pene capitali a oltre mille); non si fermano gli arresti di giornalisti e analisti anti-regime (l’ultimo caso clamoroso ha coinvolto Michel Dunne, ricercatrice critica verso al-Sisi, fermata dalle forze speciali al suo arrivo al Cairo); l’ex generale continua a emanare decreti, estendendo senza limiti i suoi poteri, nell’assenza di una data certa per le parlamentari (la nuova legge elettorale riabilita i mubarakiani e mette una pietra sul multipartitismo). Il verdetto che proscioglie Mubarak segna così il prepotente ritorno dell’ancien régime. La vendetta è compiuta, la restaurazione completata. Il paradosso è che invece Mohammed Morsi, ormai una specie di incidente di percorso più che ex presidente, il primo eletto nella storia egiziana, rischia la pena di morte per spionaggio. Mubarak e i figli Alaa e Gamal sono stati assolti anche dalle accuse di corruzione e di guadagni illeciti mosse contro di loro nell’ambito di un’inchiesta sulla presunta vendita di gas naturale a Israele a prezzi inferiori a quelli di mercato. Il sistema di Mubarak, quel nizam che i rivoluzionari volevano scardinare, ha vinto definitivamente. Era il 2 giugno 2012, quando Mubarak venne condannato all’ergastolo, con il proscioglimento dei vertici della polizia. Tuttavia, nel gennaio 2013, l’istanza presentata dagli avvocati dell’ex presidente alla Corte di Cassazione ha azzerato il primo processo. Il tentativo di lasciare impuniti gli uomini del vecchio regime nasconde anche lo scontro all’interno della magistratura egiziana. Dal giorno del boicottaggio del referendum costituzionale (dicembre 2012), i magistrati hanno trasformato la rabbia verso gli islamisti in scontro aperto con i sostenitori di Morsi, facendo l’occhiolino al vecchio regime. I giudici hanno rimandato al mittente la riforma proposta dalla Fratellanza che prevedeva il pre-pensionamento di migliaia di toghe. Non solo, appena è stato possibile, hanno appoggiato militari e polizia favorendo la destituzione di Morsi. La Corte d’appello del Cairo aveva stabilito nell'aprile 2013 per il raìs egiziano la libertà condizionata. Ma il tentativo di discolpare Mubarak è partito il giorno seguente alle sue forzate dimissioni. Da allora, è andata avanti un’opera costante, perpetrata dai suoi avvocati e dalla televisione di stato, di umanizzare il “diavolo”, il principale responsabile di trent’anni di autoritarismo, rappresentandolo come continuamente malato, colpito da continui attacchi cardiaci. È curioso poi che si voglia negare la responsabilità della polizia nelle violenze: una delle molle che ha innescato le proteste è stata l’opposizione alle abitudini umilianti dei poliziotti nei quartieri popolari. Il 25 gennaio 2011, al Cairo e Alessandria i manifestanti attaccarono prima di tutto un centinaio di stazioni di polizia. Quando la situazione sul campo apparve fuori controllo, la polizia scomparve, l’esercito decise allora di abbandonare Mubarak al suo destino. Ora però tutto è cambiato. I poliziotti sono tornati a essere parte integrante del sistema che ha rovesciato gli islamisti. La furia dello Stato si scatena contro i Fratelli musulmani. E nessuno pagherà per i massacri degli ultimi quattro anni.
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