Puerto Williams (Cile) - Un minuscolo aereo a elica sorvola Punta Arenas prima di iniziare il suo viaggio tra le nuvole verso la fine del mondo. Sotto di noi scorrono le acque inquiete dello Stretto di Magellano: ecco la Terra del Fuoco, le sue greggi, Porvenir. Oltre il Canale di Beagle c’è l’isola di Navarino, ultimo insediamento umano prima di capo Horn. A Puerto Williams vivono 2 mila 200 anime, per metà civili e per metà militari alloggiati in casette bianche tutte uguali, di stanza quaggiù per difendere la patria da improbabili minacce della dirimpettaia Argentina. Gli altri esseri viventi dell’isola sono leoni marini, lontre, qualche puma e soprattutto, 800 mila castori scatenati. Qualche decennio fa, una famiglia di coltivatori argentini ne aveva importate 40 coppie per far soldi con le pellicce. I legittimi proprietari delle pellicce, però, decisero di attraversare il canale di Beagle a nuoto per avviare la seconda colonizzazione dell’isola di Navarino. Prima di loro era arrivato l’uomo bianco e aveva fatto pulizia degli indios fueghini. Oggi, vedere dall’alto le foreste di Navarino rosicchiate e abbattute dai prolifici animaletti fa impressione. In qualche ristorante fueghino si servono piatti a base di castoro.
È dall’ultimo paese del mondo che abbiamo iniziato il nostro viaggio elettorale. È giovedì, fra tre giorni i cileni saranno chiamati a un atto di coraggio: eleggere presidente – anzi, presidenta – Michelle Bachelet, socialista, vittima con la sua famiglia delle torture della dittatura e, soprattutto, donna. Sono le 22 e il sole è ancora alto, mezzo Puerto Williams scende in piazza per Michelle con un coloratissimo carosello di automobili, canti e slogan gonfi di speranza come il cielo di nuvole che corrono verso il Polo. Tante voci che chiedono a Michelle e promettono agli indecisi giustizia sociale, lavoro, diritto di vivere e curarsi anche se non si è ricchi. Le case bianche dei militari, invece, sono sbarrate, le luci spente, non un rumore. Lo stacco è impressionante, poco sotto la roccaforte militare ci sono le povere casette in legno coperte da ondulati di latta, coloratissime, allegre, imbandierate, le finestre tappezzate di manifesti con il volto rassicurante della mujer: «Estoy contigo». In piazza c’è anche l'ultima india sopravvissuta alla “civiltà” dei pionieri bianchi, gli altri riposano nel cimitero del paese o all’ombra dei monumenti all’indiecito: ce ne sono ovunque, qui come a Porvenir, a Punta Arenas, a Santiago. Toccare un piede dell’indiecito porta fortuna, ce lo garantiscono. Per chi volete che votasse la vecchia, determinata, ultima india? Non certo per la sbiadita fotocopia di Berlusconi, quel Piñera che promette ordine e dice che Pinochet ha fatto l’errore di non rispettare i diritti umani ma «ha salvato l’economia», mentre «Allende ha precipitato il paese nel caos».
Risaliamo la Patagonia verso nord, in tutte le città incontriamo cortei e caroselli per la Bachelet. E musica, tanta musica. A Punta Arenas, dove arriviamo il giorno dopo la vittoria, vive Sonia Kuscevic, una croata di settant’anni, il volto segnato da una grande tristezza. Più di un terzo degli abitanti attuali è d'origine croata, lo confermano le tombe del cimitero e i nomi delle vie. Solo per un momento Sonia sorride, un raggio di sole le scioglie lo sguardo. È quanto le chiediamo: è contenta della vittoria della Bachelet? «Claro, es mujer». Fuori dalla casa di Sonia, a Plaza de Armas continua la festa. Un gruppo musicale studentesco batte il tempo e la speranza della Patagonia dei poveri. Ci parlano di miseria con dignità e di salute con rabbia, guai ammalarsi qui, «speriamo nella mujer». Puerto Montt è con Michelle, come Castro, a Chiloè, dove le casette colorate costruite su palafitte hanno i vetri ricoperti da immagini di Bachelet. I pescatori che ci accompagnano con un barcone a vedere i pinguini tifano per la mujer, cioè per nosotros. Cioè per la justicia social.
Da Puerto Montt a Pujuhaique attraverso la Carretera Austral, fino a Hornopyren, a Caleta Gonzalo, a Chaiten e Puyuguapi. Le foto della mujer sono ovunque. Dopo un primo turno elettorale freddino, alla vigilia del ballottaggio esplode la passione. In casa Ludwig – a Puyuguapi tutto parla tedesco, sembra di essere nella Foresta nera se non fosse per i fiordi, i mariscos e la signora Ludwig che ci distribuisce santini della Bachelet a piene mani e alza due dita in segno di vittoria. Ancora Carretera Austral, a Coihaique è come se ci fosse un solo candidato. A Punta Arenas anche la grande pinguinera fa il tifo per lei, l’immagine di Bachelet è appiccicata al bar di questo parco straordinario, tra le immagini dei pinguini che ci siamo lasciati alle spalle.
«Io ho sempre votato socialista ma oggi ho dato la mia preferenza a Piñera. È un uomo, è determinato, farà del bene al paese perché è ricco e chi è ricco non ruba». Il capitano del battello che risale il fiordo Ultima Esperanza, su su fino al ghiacciaio Balmaceda, aspetta con ansia che la radio scodelli i primi risultati elettorali. È troppo in ansia per guidare e lascia il timone al mozzo che politicamente è di tutt’altro orientamento: «Se vince la mujer ti licenzio», gli grida il capitano con un ghigno tra lo scherzo e la minaccia. La radio accesa nella cabina di comando affonda l’última esperanza del capitano: «Bachelet 53,5 per cento, Piñera 47,5 per cento». Il capitano – lo scopriamo di ritorno a Puerto Natales, dopo esserci lasciati iceberg, laguna e ghiacciaio alle spalle – è proprietario anche di un altro battello, ha traffici con la compagnia dei pullman che vanno a Punta Arenas, insomma è padrone di mezzo Puerto Natales. Così si capisce il suo voto per il clone cileno di Berlusconi che promette ricchezza, un milione di posti di lavoro, ordine e disciplina. Tutto è classista in Cile, la società è spaccata in due così come l’hanno lasciata il dittatore Pinochet e i Chicago boys, e come non ha potuto o voluto cambiarla il socialista Lagos che ha ereditato il più feroce dei liberismi.
Giù in paese, tutt’altra musica. Le strade di Puerto Natales sono invase dall’altro Cile, dall’altra Patagonia che ha puntato tutte le sue carte su Michelle «per farla finita con il liberismo». E ha vinto. «Estoy contigo», manifesti, bandiere colorate e caroselli di automobili. A ricordarci i due Cile ci penserà l’autista di un furgone dall’età incerta a Punta Arenas: l’ex ufficiale della dittatura ci spiega che il problema principale in Cile è la sicurezza (nel paese sudamericano dove la criminalità è più bassa) e la lotta alla corruzione, ché una volta sì che c’era ordine. Certo, Pinochet ha un po’ esagerato, qualche diritto umano bisogna pur rispettarlo, ma finalmente aveva riportato l’ordine. Te la do io la mujer Michelle.
L’ex ufficiale e il capitano hanno perso la partita. Anche in Cile, come in tanta parte dell’America latina, riparte la speranza. E speriamo che le stelle – quelle della bandiera nordamericana – questa volta restino a guardare.
Una continuità da spezzare
da Santiago - Il caffè Venezia è un luogo d’incontro speciale, a cavallo tra le due Santiago, quella dei poveri che sono la maggioranza e faticano a mettere insieme il pranzo con la cena e quella dei ricchi arrampicati sulle colline dietro il Cerro San Cristobal, blindati nelle loro ville sfarzose e pacchiane difese da un’inquietante moltitudine di guardie private. Qui al Venezia si incontravano gli intellettuali non ancora finiti nella rete della dittatura, qui scendeva Pablo Neruda a bere un bicchiere. Victor Jara non c’era già più, aveva smesso di cantare un giorno di settembre del 1973, allo stadio di Santiago; qualcuno continuava a ripetere sommessamente qualche nota, “Te recuerdo Amanda”. O “Gracias a la Vida” di Violeta Parra. Oggi i gruppi di musicisti di strada riempiono piazze, gallerie commerciali e autobus di tutte le città cilene con le canzoni proibite, interpretando la volontà di un paese ferito di uscire da una notte troppo lunga. La mujer Bachelet incarna il sogno di liberazione del Cile, su di lei sono riposte aspettative straordinarie, forse persino troppe: l’ombra minacciosa del macellaio Pinochet continua a offuscare il sole di Santiago, del deserto di Atacama, della Patagonia, della Terra del Fuoco. Una via centrale della capitale cilena continua a chiamarsi “Avenida 11 settembre” e la “Carretera Austral” è ancora firmata “General Augusto Pinochet”.
Oggi il Venezia è ancora un centro di incontro di intellettuali e poveracci: dentro si innaffia con la birra o un bicchiere di ottimo Cabernet un poderoso panino con carne e avocado; fuori, giovani e meno giovani stramazzati al suolo rigurgitano un sottoprodotto della lavorazione della cocaina destinata alle ville blindate della collina. I Chicago boys hanno colpito duro la società cilena, qui il liberismo per decenni ha operato senza veli, mediazioni o ammortizzatori, fino a diventare modello generale invidiato da quei gringos nordamericani che avevano voluto e ottenuto la testa di Salvador Allende e la fine nel sangue di una grande scommessa collettiva.
Era cominciata in sordina la campagna elettorale per eleggere il nuovo presidente del Cile che dovrà sostituire il socialista Lagos, un politico forte osteggiato da un blocco di potere compatto, picchettato dai proprietari dei media oltre che dell’economia e dai militari. Cosicché, in una realtà in cui avere il governo non vuol dunque dire avere il potere, poco è cambiato dal punto di vista sociale rispetto agli anni terribili di Pinochet e della cosiddetta transizione guidata dai democristiani, rimasti al governo in perfetta continuità nella stagione di Lagos: il liberismo, anzi, è l’elemento di continuità tra passato e presente.
È la speranza di un futuro diverso che al ballottaggio ha cambiato il segno della campagna elettorale, riempiendo le piazze delle città, fino all’ultimo villaggio cileno, con le bandiere e le immagini di Michelle Bachelet. La mujer – e già questa è una rivoluzione in un paese ferocemente machista – ha parlato molto di solidarietà e giustizia sociale toccando le corde del popolo, riscaldando i cuori degli umili e dei poveri cristi che affollano le bidonville delle città. Ha parlato meno del passato, la Bachelet, la memoria è l’osso più duro da addentare nel Cile, 32 anni dopo il golpe militare, mentre continua l’impunità dei torturatori. E dire che lei quegli anni non li ha certamente dimenticati: suo padre, ufficiale lealista della marina, è stato ammazzato nelle carceri di Pinochet dai suoi stessi sottoposti; tanto lei quanto la mamma sono passate nelle celle della famigerata Villa Grimaldi, dove tra il ’73 e il ’78 furono detenuti clandestinamente e torturati migliaia di prigionieri politici, trasportati nel mattatoio con camion frigoriferi. 226 sono desaparecidos, chissà quanti i morti. Quando il municipio riuscì a strappare ai militari e alla minaccia di una indecente speculazione edilizia Villa Grimaldi, pagandola dieci volte il suo valore reale, i macellai della dittatura avevano ormai demolito tutto, cancellato quasi ogni traccia. Il guardiano della Villa, diventata monumento storico (“Parque por la paz”), ci racconta la fatica a ricostruire la memoria del luogo, pietra su pietra, cercando testimonianze, immagini, racconti. Scavando per riportare alla luce pietre e rosai, innaffiando l’albero secolare dove i prigionieri venivano appesi. Ci mostra il sentiero delle rose, dove le vittime camminavano bendate e riuscivano a orientarsi grazie al profumo dei fiori. Ci dice, in conclusione della visita, accompagnandoci verso l’uscita, «questo cancello non si aprirà mai più». Per visitare il parco della pace Villa Grimaldi oggi si entra da un altro ingresso.
È una vittoria storica, quella della Bachelet, che sta restituendo la voce a coloro a cui la voce era stata tolta. Forse domani si potrà aprire uno squarcio sugli anni della violenza e del dolore. Magari quando il macellaio numero 1 sarà solo una tomba nel cimitero di Santiago dove oggi riposano Salvador Allende e qualcuna delle tante vittime della dittatura. Le altre vittime, i desaparecidos, giacciono chissà dove, in fondo al mare o nel fiordo patagonico Ultima Esperanza. A ricordarli resta solo un Memoriale del desaparecido, non lontano dalla tomba del compañero presidente Salvador Allende. Mentre ci fermiamo a riflettere davanti alla gigantesca lapide che ricorda i nomi degli scomparsi, un gruppo di musicisti di strada intona una canzone di Victor Jara. Siamo già in Italia, invece, quando ci raggiunge la notizia dell’arresto per evasione fiscale (ricordate Al Capone?) della moglie e di quattro dei cinque figli del dittatore Pinochet, a cui è stata nuovamente negata l’immunità per il crimine di tortura. Che sia davvero l’inizio di una nuova era? |