Ha taglieggiato per oltre tre anni alcuni ferraioli italiani attivi su importanti cantieri in Ticino. Il prossimo 16 dicembre un imprenditore valtellinese comparirà di fronte alla Corte delle Assise criminali di Lugano. La Procura pubblica lo accusa di vari reati, tra cui usura aggravata e amministrazione infedele aggravata. L’inchiesta, partita nel 2017 su segnalazione di Unia, mette in luce un nuovo caso di malaedilizia andato in scena su dei cantieri pubblici ticinesi. Lentamente, ma molto lentamente, la malaedilizia torna nelle aule di tribunale in Ticino. A finire sul banco degli imputati è A.R., un imprenditore valtellinese attivo nel settore della posa del ferro in Italia e in Ticino. L’atto d’accusa firmato dal procuratore Daniele Galliano – datato dicembre 2020 – afferma che l’uomo “ha sfruttato lo stato di bisogno, di dipendenza e l’inesperienza di dodici operai”, facendoli lavorare su vari cantieri ticinesi in cambio di una retribuzione decisamente inferiore a quella prevista dal Contratto nazionale mantello per l’edilizia principale in Svizzera. In totale, l’imprenditore avrebbe corrisposto loro circa 146.000 franchi invece dei quasi 250.000 che avrebbe dovuto versare se avesse rispettato le normative elvetiche: il guadagno effettivo sarebbe così stato di circa 100.000 franchi, “risultanti in una manifesta sproporzione del 41,47%”. Taglieggiamenti al postomat L’inchiesta è scattata nel marzo del 2017 quando alcuni operai, sostenuti da Unia, decidono di denunciare i soprusi di cui sono stati vittima. Il sindacato era riuscito a mettere in evidenza il sistema utilizzato dall’imprenditore per sottopagare i ferraioli italiani. L’uomo, attraverso due agenzie interinali ticinesi, una di Cadempino, l’altra di Arbedo-Castione, faceva assumere dei ferraioli già alle sue dipendenze in Italia per farli lavorare presso una sua società di Lugano, costituita nel 2014 e basata presso una fiduciaria in Corso Elvezia. Sulla carta i contratti erano conformi alle normative contrattuali svizzere. Peccato però che alle due agenzie interinali veniva notificato un “monte ore” nettamente inferiore rispetto alla prestazione lavorativa effettivamente svolta dagli operai sui cantieri, tra cui quello dell’AlpTransit di Sigirino. Il sistema era imposto agli operai, a cui per il restante delle ore veniva promesso un pagamento in contanti pari a circa 12-14 euro all’ora: oltre il 50% in meno di quanto loro dovuto, senza tenere conto delle indennità per il lavoro in galleria o per i notturni. Ma il sistema di sfruttamento non si limitava a questo: a certi lavoratori era stata imposta addirittura la restituzione di parte dello stipendio, in particolare se quest’ultimo eccedeva il salario italiano convenuto. L’esecuzione di quello che il procuratore pubblico ha definito “sistema usuraio” era stata affidata a tre capisquadra, già condannati per complicità tramite decreti d’accusa. È uno di questi capisquadra che, ad esempio, nel dicembre 2015, ha accompagnato un operaio a un postomat di Rivera per fargli prelevare un importo di mille franchi da riconsegnare al padrone. Quando, qualche settimana dopo, lo stesso operaio si rifiuterà di effettuare ulteriori restituzioni, ecco che verrà licenziato. Vittime vulnerabili e in stato di bisogno Per il procuratore, A.R. ha ideato “un complesso sistema per retribuire gli operai con un salario italiano leggermente maggiorato”. Il motivo del suo agire: il fatto che “il salario minimo obbligatorio era troppo alto per partecipare alle gare d’appalto in Svizzera e conseguire un margine di ricavo”. Tra gli operai c’è chi si è visto corrispondere oltre il 50% in meno di quanto avrebbe dovuto percepire se le normative contrattuali svizzere fossero state rispettate. L’imprenditore aveva persino obbligato le due agenzie interinali ad impiegare gli operai da lui portati unicamente a beneficio della sua società, “agendo quindi come unico datore di lavoro, avendo capacità decisionale autonoma sulle assunzioni del personale, sul salario, sui licenziamenti e su dove impiegare gli operai”. Nel suo atto d’accusa, il procuratore Galliano, dettaglia il profilo delle dodici vittime. Sono tutti cittadini italiani dal profilo piuttosto precario: poco qualificati, reduci da periodi di non impiego, con famiglie a carico, alcuni con problemi di debiti o di tossicodipendenza. Significativa la testimonianza di uno di loro: «Io non so leggere queste cose, queste buste paga, i contratti… io lavoro sul cantiere, io so dove mettere un tondino di ferro o come guidare un mezzo da cantiere». Questa situazione di inesperienza delle normative elvetiche, unita alla necessità di dover lavorare per sostenere sé stesso e la propria famiglia, coniugata anche con i vantaggi pecuniari sproporzionati dell’imprenditore, porta l’accusa pubblica a ipotizzare il reato di usura. A.R. è anche accusato di avere danneggiato il patrimonio della sua società per almeno 1,2 milioni di franchi. In sostanza avrebbe prosciugato i soldi della società elvetica inviando, senza alcuna ragione economica valida, i soldi alle sue società italiane. L’imprenditore è pure accusato di falsità in documenti e infrazione alla legge federale sulle assicurazioni per la vecchiaia e superstiti e infrazione alla legge federale sulla previdenza professionale.
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IL COMMENTO Un caso emblematico delle lacune nella lotta alla mala edilizia Il caso che approda in aula il prossimo 16 dicembre è emblematico di alcuni problemi che affliggono la giustizia ticinese in relazione alla lotta alla malaedilizia. Il primo punto critico riguarda senza dubbio le tempistiche. La denuncia di Unia risale al marzo del 2017, mentre la firma dell’atto d’accusa è stata apposta nel dicembre 2020. Come è mai possibile che il processo sia stato convocato soltanto quattro anni dopo, nel dicembre 2024? Questa volta l’accusa di lungaggine non va indirizzata soltanto all’accusa pubblica, ma anche allo stesso Tribunale penale. Oltre ai tempi lunghi, vi è però un altro aspetto che non può non preoccupare: quello delle responsabilità. Ancora una volta il procuratore pubblico ha preso di mira l’ultimo anello di quella che sembra essere una più ampia catena di sfruttamento. Dopo la condanna di tre capisquadra, si arriva al processo nei confronti dell’imprenditore A.R., ma la vicenda si conclude lì. Eppure la ditta di A.R. era attiva su vari e importanti cantieri pubblici, come quello dell’AlpTransit di Sigirino. Il Consorzio Condotte Cossi che ha ottenuto questo appalto ha subappaltato la fornitura e la posa dell’acciaio per i lavori in galleria a un’altra società che, a sua volta, ha subappaltato il lavoro alla società di A.R. In quel caso, per evitare l’infrazione del divieto di subappalto del subappalto, il Consorzio Condotte Cossi ha imposto alla società subappaltante la costituzione di un consorzio per la fornitura e la posa dell’acciaio. Consorzio costituito dalla stessa società subappaltante insieme all’azienda di A.R. Il prezzo concordato per il lavoro di posa era però talmente basso che era con ogni evidenza insostenibile senza fare ricorso al taglieggiamento degli operai. In queste vicende, il ruolo svolto da questa società subappaltante, specializzata nei lavori edili e nella fornitura di acciai e metalli, sembra essere tutt’altro che marginale. Era questa società che faceva lavorare la ditta di A.R. sui cantieri ticinesi. Senza questo apporto, l’azienda dell’imprenditore oggi accusato di usura non avrebbe potuto penetrare il mercato ticinese né operare su così ampia scala. Quale è quindi il suo ruolo in questa vicenda e, più in generale, nell’attuazione di questo sistema d’interposta usura? E quale il ruolo dei clienti finali, i committenti, che hanno ricercato e accettato prezzi palesemente troppo bassi, palesemente insostenibili senza violare i requisiti contrattuali e le normative svizzere in materia di assicurazioni sociali? Per la Procura pubblica, che ha impiegato anni per portare l’imprenditore davanti a un tribunale, sembra difficile affrontare la dimensione sistemica dello sfruttamento e allargare il ventaglio di eventuali altre responsabilità penali.
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