Fine dell’anno, voglia di bilanci. Forse più che di conti nazionali o locali o di crescita che si vuole in ripresa, ma con incertezze tali che se ne mette già in dubbio la possibile continuità, c’è necessità di chiedersi dove siamo finiti con il sistema che ci è stato cucito addosso. L’economia in cui viviamo, traffichiamo, prosperiamo o peniamo, è capitalista. Anche la società è capitalista. Economia e società sono in crisi continua: la prima non trova risposte ai problemi strutturali che si pongono; la seconda è sconvolta nei valori e rianima scheletri del passato. Si cerca di uscirne. Accettando lo stato di malattia permanente (ritenendo le ingiustizie inevitabili); fingendo riforme con innegabile abilità ricattatoria; rivoluzionando, come alle volte avviene, ma con repressioni tragiche? – Il capitalismo si è sviluppato (dopo gli anni ’80) sulla utilizzazione, distruzione e privatizzazione dei beni naturali “comuni” (territorio, acqua, fonti energetiche, ambiente). Queste espropriazioni-privatizzazioni si sono accompagnate allo sfruttamento del lavoro salariato. Dunque: non si vede come si potrà uscirne senza riprendere il controllo dei beni comuni (la terra, l’energia, l’acqua, le foreste ecc., ai quali va aggiunto il clima e il dovere di controllarlo). La realtà odierna, non solo Trump, ci dice che si sta sempre agendo in senso contrario. L’incertezza lasciata dalla crisi, esasperando lo stato di necessità o di continuo ricupero dei profitti, avversa infatti come nefasto impoverimento ogni limite allo sfruttamento della natura e dell’uomo. – La politica, sposando l’utopia della crescita senza fine (l’unica rimasta ?) è serva dell’economia. Ha abdicato offrendo al capitale finanziario il potere di controllare e moltiplicare a suo unico profitto moneta e credito. Non mezzi per creare economia reale, ma fine a sé stessi, per creare denaro con il denaro. Dunque: non si vede come si potrà uscirne senza rimettere in discussione i poteri finanziari, senza ridare ai poteri pubblici possibilità di intervento (regole) che permettano di ristabilire una giusta umana gerarchia di valori. Tuttavia, togliere al capitalismo (o alle banche) le possibilità della moltiplicazione monetaria e finanziaria significa azzopparlo, privarlo di una delle sue fonti principali di dominio e di profitto. Chi inquadra gli investitori-speculatori che sono gli unici attori e sfruttatori del momento senza promuovere una nuova diversa “lotta di classe”? – Il capitalismo negli ultimi trent’anni è stato portato, grazie anche al sostegno della politica, ad una esaltazione ed esasperazione tali da poter pure attaccare senza remissione i beni comuni sociali, conquistati nei trent’anni precedenti e cioè: il diritto del lavoro, la protezione sociale, diversi altri diritti umani (diritto al lavoro, dignità, sicurezza, salute) e i servizi pubblici. O perché visti unicamente come fattori di costo (lavoro, protezione sociale) o perché considerati suscettibili di profitti privati (es.: poste, telecomunicazioni, ferrovie, salute, acque, energia elettrica, ora radiotelevisione pubblica). Il lavoro, ridotto a merce e costo, è stato il fattore più bersagliato. Nei paesi sviluppati, sotto forma di lavoro flessibile, precario, dequalificato oppure sotto forma di pressione costante al ribasso della parte di valore aggiunto spettante ai salari (con invece l’esplosione degli stipendi dei managers e dei dividendi degli azionisti) oppure sotto forma di sempre maggior produttività richiesta ai lavoratori in nome della competitività (sfruttamento). Nei paesi emergenti come risorsa principale di elevato profitto per le multinazionali (differenze salariali, dumping sociale). Su questa linea si persiste nonostante tutto, anche perché il lavoro si fa raro e per poter lavorare si accetta tutto. Come uscire dall’inganno? Senza disperare, dobbiamo far pressione sulle istituzioni finite in un vicolo autodistruttivo. La vera fondamentale operazione che occorre per uscirne rimane però quella di cominciare da noi stessi: abbiamo un potere (come lavoratori, come consumatori, come risparmiatori, come sindacati, come casse pensioni) che ancora sottovalutiamo o non usiamo.
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