Ci sono voluti 5 anni, 329 udienze e 11 giorni di camera di consiglio perché la giustizia, a seguito di un’inchiesta partita nel 2008, di un processo concluso e poi annullato e rifatto ex novo, confermasse ciò che tutti a Taranto sapevano da tempo: l’Ilva della famiglia Riva ha distrutto l’ambiente, i mari, la terra, gli animali e la città, avvelenati dalla diossina, dal benzo(a)pirene e dalle polveri tossiche sparate dal camino E312; ha ucciso e fatto ammalare migliaia di cittadini colpevoli di abitare troppo vicini al mostro, ha tolto la vita e intossicato i suoi operai. La cupola dell’“associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale” in nome del profitto è rappresentata – morto il capostipite, il “rottamaio” Emilio, il Paperon de’ Paperoni dell’acciaio – dai suoi figli Fabio e Nicola condannati a 22 e 20 anni di carcere. 270 anni di prigione per 26 dei 47 imputati condannati per aver avvelenato sostanze alimentari (migliaia di pecore e di tonnellate di cozze gettate negli inceneritori perché impestate da diossina) e per omissione colposa di cautele nei luoghi di lavoro. Per i maggiori responsabili il reato appurato da una giuria di sole donne è di omicidio colposo e corruzione. Al responsabile dei rapporti con le istituzioni Girolamo Archinà 21,5 anni di carcere e con lui, condannati il direttore dello stabilimento e i capiarea. Al consulente della Procura corrotto da Archinà 15 anni e 3 all’assessore della Provincia Florido.
Quella risata di Vendola Fin qui la sentenza shock trova quasi tutti d’accordo. Ma è la condanna a tre anni e mezzo all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola a far discutere. L’accusa è di concussione aggravata per aver tentato di convincere il direttore dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato ad addomesticare i dati sull’inquinamento, anch’egli condannato a due anni per favoreggiamento per aver negato pressioni da Vendola. Bisognerà leggere bene le motivazioni della sentenza per verificare le prove della presunta combine. In molti sostengono che le responsabilità politiche non comportano automaticamente responsabilità giudiziarie: la responsabilità politica di Vendola si riassume in una sciagurata telefonata ad Archinà, gran corruttore di casa Riva, per congratularsi con lui per aver strappato di mano il microfono a un giornalista che chiedeva ragione dei morti di cancro provocati dalle emissioni del maledetto camino E312. Vendola ride per lo «splendido scatto felino» di Archinà, «un quarto d’ora a ridere con il mio capogabinetto, non potevo riprendermi...». Per l’ex presidente della regione il metodo Riva si sarebbe dovuto estendere all’intera imprenditoria pugliese. Altro è la responsabilità in sede giudiziaria: o Assennato, che della lotta all’inquinamento ha fatto la sua ragion di vita e ha persino rinunciato alla prescrizione, pur non avendo mai addomesticato i dati, mente per proteggere Vendola, oppure nella sentenza c’è qualcosa che non torna. Vendola definisce la sua condanna «una barbaria».
Un’altra via era possibile Mentre i Riva inquinavano e corrompevano, istituzioni e politica non controllavano, i governi continuavano a scodellare decreti salva Ilva (12) fino a decretare l’impianto tarantino strategico per l’economia nazionale per salvarlo dalla chiusura decisa da un’altra donna, il gip Todisco nel 2012. Dal 1995, anno in cui Riva acquisì per quattro soldi dallo Stato il più grande siderurgico d’Europa, hanno costruito una ragnatela di corruzioni pagando amministratori, politici, periti, orientando le decisioni di enti locali e governi, e persino dell’arcivescovato tarantino e di gran parte dei sindacati con donazioni e benefit. Elementare la filosofia: quel che non posso eliminare me lo compro. E poi, è meglio morire di cancro che di fame, come recitava uno slogan degli anni Settanta negli Usa, “Niente lavoro niente cibo, mangia un ambientalista”. Così negli anni Riva, mentre tirava al massimo gli impianti fino a 10 milioni di tonnellate annue d’acciaio, faceva crescere una guerra tra poveri mettendo in contrapposizione l’un contro l’altro armato due diritti fondamentali, al lavoro e alla salute. Una terza via esiste(va), non si è voluto percorrerla. Si può lavorare e produrre nel rispetto di operai e ambiente, certo servono investimenti, ripensare per intero alla filiera dell’acciaio. Bisognava coprire i depositi di ferraglia utilizzata nei forni per evitare che il vento trasportasse polveri mortali nei polmoni degli abitanti del quartiere Tamburi ammazzando di cancro donne, uomini, bambini, gli stessi operai Ilva. Bisognava decarbonizzare la produzione con i forni elettrici, e creare lavoro al di fuori del siderurgico mentre oggi da quell’acciaieria dipende il 75% del pil tarantino e una quota importante del pil italiano. E invece no, scelsero di risparmiare su costi e risanamento, e oggi risanare l’“ambiente svenduto” (è il nome dell’inchiesta giudiziaria che ha portato alla sentenza) costerà molto più del risparmio fatto sulla pelle di operai e popolazione. La sentenza ordina la confisca per profitto illecito di 2,1 miliardi nonché degli impianti dell’area a caldo. Ma ciò non vuol dire chiusura, almeno fino alla sentenza della Cassazione, dato che l’impianto è strategico per il paese. E prima ancora si attende il verdetto del Consiglio di stato sulla chiusura. Sotto quel camino mefitico, dall’avvio della produzione benedetta nel ’64 da Aldo Moro sono passati tanti padroni, dallo stato con l’Italsider, ai Riva, ai commissari straordinari, agli indiani di ArcelorMittal a cui è stata garantita l’impunità giudiziaria, fino a oggi, cioè alla definizione del ritorno in Ilva dello stato in una società mista con gli indiani denominata Acciaierie d’Italia. Si può ancora salvare l’Ilva e, con essa, l’acciaio italiano? Ritardi, imbrogli, subalternità e complicità, ma soprattutto l’emergenza ambientale e sanitaria hanno scavato un solco tra città e fabbrica, passioni e disperazioni hanno cancellato razionalità e progetto. Più tempo passerà invano, senza risanamento e senza garantire al lavoro e alla salute pari dignità, più sarà difficile ricostruire, a Taranto, una nuova storia industriale. Con quel che ne conseguirebbe per la vita di almeno 15mila famiglie operaie.
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