Il virus mette a nudo le disfunzionalità del sistema

Da anni il giornalista Stefano Liberti viaggia per il mondo per raccontare storie e dinamiche dell'agricoltura. In questi anni ha scritto articoli e libri che parlano di accaparramento delle terre agricole nel Sud del mondo, di filiere agro-alimentari (pomodoro, soia, maiali eccetera) o del potere crescente della grande distribuzione. Lo abbiamo intervistato per capire alcune delle fragilità del sistema agricolo internazionale emerse nel contesto della pandemia del Covid-19.

 

Stefano Liberti, partiamo da dove tutto è cominciato: dalla Cina. Per alcuni esperti la causa della crisi sanitaria è da additare allo sviluppo del settore agro-industriale cinese. Come mai?
In Cina, negli ultimi venti anni, si è assistito ad un'industrializzazione enorme dell'agricoltura. L'esempio più eclatante sono gli allevamenti intensivi i quali hanno avuto un impatto ambiente e sociale considerevole. I piccoli produttori di carne sono stati scacciati dal mercato e hanno dovuto convertirsi in altre specie, come il pangolino o il pipistrello, oggi considerati come i probabili portatori del Covid-19. I grandi allevamenti riducono inoltre lo spazio dell'ecosistema selvatico, facilitando quella zoonosi di cui in tanti parlano oggi, ossia il salto di specie del virus da un animale all’altro e all’essere umano.

 

Gli allevamenti intensivi costituiscono quindi un rischio sanitario?

Certo, questi allevamenti sono una bomba sanitaria. Non solo in Cina. Essendo un concentrato di animali con patrimoni genetici molto simili, la possibilità di sviluppare virus patogeni è altissima. Per evitare ciò vengono loro somministrati enormi quantità di antibiotici il che rischia di generare una resistenza che può facilitare lo sviluppo di virus che potrebbero anche attaccare l'essere umano. L'Oms considera l'antibiotico-resistenza uno dei principali problemi sanitari del futuro. Se ne è parlato poco, ma in Cina lo scorso anno la peste suina africana ha decimato la popolazione di maiali. Questo è un altro segnale che questo sistema è insostenibile.

 

Vi è inoltre la questione dell'impatto ambientale.

Ogni anno sul pianeta terra ci sono 70 miliardi di animali da allevamento. Ciò implica una necessità di cereali, mais e soia che vengono coltivate a discapito di altri produzioni agricole e, soprattutto delle foreste primarie, come avviene in Amazzonia. Animali che generano anche scarti che bisogna poi smaltire. Se una volta il letame era una risorsa, ora è un costo che genera anche gravi conseguenze ecologiche. Negli Stati Uniti ho sorvolato immensi “laghi” all'aperto di liquami di maiali; in Italia vengono stoccati e poi versati nei campi in alcuni periodi dell'anno inquinando le falde e generando tutta una serie di problemi.

 

Nel suo libro I signori del cibo, lei ha descritto l'assurdità dell'allevamento di maiali in Cina. Ci può riassumere cosa succede?

Quando ho visitato gli allevamenti di maiale in Cina ho visto lì gli stessi maiali che si vedono da noi. Mi aspettavo maiali di razza autoctona. Invece no. Questo perché dal momento che loro hanno mutuato il modello intensivo occidentale hanno anche importato le razze che erano già state geneticamente modificate per adattarle meglio a queste condizioni d'allevamento. Quello che succede è quindi che la Cina importa migliaia di scrofe dagli Usa e, al contempo, milioni di tonnellate di soia dal Sudamerica per nutrire questi animali. Questo doppio movimento rende questo commercio ancor più insostenibile. Tutto questo per garantire alla popolazione cinese, numericamente importante e in crescita economica, di mangiare carne e basso costo. In Cina il maiale lo si mangia da millenni, ma si trattava di allevamenti piccoli, e di un alimento non certo quotidiano. Bisognerebbe ridare alla carne il suo valore, e quindi anche il suo prezzo.

 

Prezzo che spesso, anche da noi, non tiene in conto dell'impatto ambientale.

Le filiere alimentari sono diventate estremamente lunghe perché il costo del trasporto è molto limitato. Riempire un container costa pochissimo, ma i costo ambientale non viene mai computato. Per questo può succedere che un produttore italiano di pomodoro concentrati si rifornisca di materia prima cinese, piuttosto che di pomodoro prodotto in Sud Italia.

 

L'attuale emergenza non potrebbe permettere di correggere queste assurdità?

Quello che è successo, in agricoltura ma non solo, è che si è esternalizzato in alcuni Paesi come la Cina, tutta una serie di produzioni che lì costavano meno. Ora le merci viaggiano meno velocemente e ciò potrebbe effettivamente portare ad una regolamentazione di quelle che sono le disfunzioni più evidenti del sistema. E sicuramente sarebbe utile farlo anche in campo agro-alimentare. È chiaro che per i frutti tropicali non si può fare: qui le banane non crescono e se le vuoi mangiare le si devono importare. Il cibo d'altronde ha sempre viaggiato nella storia. Ma il problema è che negli ultimi venti-trent’anni lo ha fatto in modo vorticoso, rispondendo a dinamiche puramente economiche e e in modo totalmente deregolamentato.

 

Lei ha anche analizzato il ruolo della grande distribuzione, sopratutto in Italia. Quale è il ruolo dei supermercati nel dettare le regole della filiera agro-alimentare?

Un po' dappertutto la grande distribuzione è il principale canale d'accesso al mercato. In Italia circa il 75% degli acquisti alimentari si compiono al supermercato. Questi hanno un ruolo importante sia come accesso al mercato per i produttori che come accesso al cibo per i consumatori. Questo potere è sfruttati notevolmente attraverso tutta una serie di pratiche scontistiche, di offerte e di sottocosti promosse per attirare i consumatori il cui potere d'acquisito diminuisce. Ciò ha generato una pressione fortissima sulla filiera di produzione. Fatto salvo alcuni giganti come Ferrero o Barilla, gli attori della filiera agro-alimentare sono piccole o medie aziende che si trovano confrontate con dei giganti che hanno cifre d'affari impressionanti. In questo confronto le aziende agricole o di trasformazione perdono.

 

In che modo chi sta alla fine della filiera è responsabile degli abusi ai danni dei lavoratori agricoli di cui si legge spesso in Italia?

In Italia il settore agricolo è in parte compromesso da sacche di sfruttamento. I vari sistemi di lavoro non regolare non sono però il frutto della cattiveria del singolo produttore agricolo. Sono in qualche modo il risultato di una filiera disfunzionale. Perché se la grande distribuzione compra un sugo di pomodoro a pochi centesimi la bottiglia, costringo l'industriale trasformatore a comprare al ribasso, il quale si rifarà sul produttore agricolo il quale si rifarà a sua volta sul bracciante che raccoglie il pomodoro. Il quale non si può rivalere su nessuno. In Italia, nel 2016, è stata varata una legge importante contro il caporalato. Penso però che bisognerebbe ragionare in ottica di filiera e coinvolgere anche la responsabilità sociale degli altri attori. Non solo quella dell'imprenditore agricolo che se viene colto a sfruttare i lavoratori può avere l'azienda confiscata, ma coinvolgere anche coloro i quali sono più in alto nella filiera e svolgono un ruolo diretto in questo sfruttamento.

 

L'attuale emergenza sta creando mancanza di manodopera agricola. Quali riflessioni fare?

Incredibilmente ci siamo accorti che gran parte dei nostri raccolti sono raccolti da manodopera straniera. Lavoratori provenienti per lo più dall'est Europa e che quest'anno non sono arrivati a causa dell'emergenza Covid-19. Secondo la Coldiretti, mancherebbero all'appello 340.000 braccianti. In questo contesto si sta così tentando di regolamentare quelli che sono i più sfruttati, i richiedenti l'asilo respinti che operano soprattutto in Sud Italia. Il Governo italiano sembrerebbe tentato da questa strada, il che potrebbe quindi avere anche delle conseguenze positive. In generale, questa crisi potrebbe essere un'occasione per restituire dignità al lavoro nei campi e anche al cibo che viene prodotto.

 

Pubblicato il

23.04.2020 18:04
Federico Franchini