Il virus che contagia le democrazie e intacca le libertà

L’emergenza sanitaria è stata sfruttata con il paradigma della paura, che ha permesso di stringere le maglie del controllo sociale e di limitare i diritti delle persone. La scrittrice Enrica Perucchietti lo spiega in un libro

In tutto il mondo è emergenza sanitaria: pandemia. E i vari governi hanno reagito chi per contenere il virus, chi rifiutando di riconoscerlo come un reale pericolo e chi per stringere le maglie del controllo sociale. Quale occasione più ghiotta della paura per controllare le masse? Ne abbiamo parlato con la giornalista e scrittrice Enrica Perucchietti, che con una laurea in filosofia, ha cofirmato l’ebook “Coronavirus. Il nemico invisibile”.

La tesi di Perucchietti, caporedattrice del Gruppo editoriale Uno, che ha scritto il volume con l’avvocato Luca D’Auria, è che il virus in circolazione abbia permesso ai governi di limitare le libertà individuali, i diritti dei cittadini. «Si è strumentalizzata la paura per spingerli ad accettare provvedimenti in uno spirito di totale sottomissione all’autorità». Perucchietti sottolinea come i cittadini si siano trasformati in psicopoliziotti, andando alla caccia dei presunti untori: «Tutto ciò mi ricorda il Grande Fratello di Orwell: anche qui il nemico invisibile veniva sfruttato per compattare l’opinione pubblica contro una minaccia estrema e globale».


Non sarà mai che il coronavirus abbia contagiato anche la politica? Già che ci pensiamo, qualcuno in Ungheria ha deciso che la situazione richiedesse l’assunzione per sé stesso dei pieni poteri e in Ticino qualcun altro ci ha detto che non possiamo fare la spesa in Italia, se non vogliamo essere multati... Come è pericoloso questo virus.

Signora Perucchietti, l’emergenza sanitaria ha assunto il primato sulle garanzie democratiche e di libertà dei cittadini? Se sì, in quali modalità?
Se pensiamo a decreti adottati a Parlamento chiuso, dispiegamento dei droni, tracciamento dei cittadini, multe compulsive, patologizzazione del dissenso, sorveglianza tecnologica, braccialetti per il distanziamento sociale per i bambini, commissioni tecniche, task force sulle fake news, l’oscuramento di contenuti ritenuti scomodi e la censura dell’informazione alternativa, la risposta appare evidente.
Credo che si sia indotto, in modo fallace, nell’opinione pubblica, l’idea che si dovesse scegliere tra salute-sicurezza e libertà-privacy per giustificare appunto un progressivo restringimento delle libertà personali. La scelta tra privacy e salute è a mio dire una falsa scelta, in quanto non esiste un aut aut, come invece si vuole far credere all’opinione pubblica. Il filosofo romano Giorgio Agamben ha stigmatizzato ogni forma di “stato eccezionale” della legge, costringendo la cittadinanza a vivere in una condizione extralegislativa ed emergenziale. Si è infatti creato un precedente che va valutato a fondo e che porta a conseguenze che non possiamo ancora prevedere e, come già lamentava Agamben, si è aperta un’area grigia. Tali misure sarebbero, secondo il filosofo, frutto di una intenzione chiara seppure nascosta: aumentare, “con un pretesto”, il controllo politico sulla popolazione.


La pandemia ha prodotto pressoché in tutto il mondo l’attuazione di misure eccezionali. Lo stato di necessità si sta prestando ad abusi? Quali? La democrazia è minacciata?
Come dimostra il caso dell’11 settembre in America con l’introduzione del Patriot Act, il potere sfrutta momenti di crisi per stringere le maglie del controllo e della sorveglianza sui cittadini. In un lungo articolo per il Financial Times, lo storico e scrittore Yuval Noah Harari ha mostrato come negli ultimi anni, a livello globale, sia i governi sia le società abbiano utilizzato tecnologie sempre più sofisticate per tracciare, monitorare e manipolare le persone e che, se sull’onda della paura per il contagio non facciamo attenzione, l’epidemia potrebbe legittimare «un nuovo terrificante sistema di sorveglianza».
Il rischio che si crei un grande fratello elettronico sull’onda dello stato di paura è talmente chiaro che sono gli stessi promotori a non negarlo neppure più, ma a difendere la corsa alla sorveglianza tecnologica per la “tutela della salute”, chiedendo che i cittadini legittimino tali misure per il contrasto della pandemia. Si è indotta, come dicevo prima, la percezione che si debba scegliere tra privacy e salute, arrivando persino a rinunciare alla prima pur di tornare a sentirsi sicuri.
Per quanto riguarda il tracciamento dei cittadini, dobbiamo immaginare cosa potrebbe accadere se le aziende e i governi iniziassero a raccogliere i nostri dati biometrici in massa: arriverebbero a conoscerci meglio di noi stessi, avendo la possibilità di anticipare le nostre emozioni, i nostri sentimenti, persino le nostre malattie. Sarebbero in grado di manipolarci alla perfezione entrando con più facilità nel nostro immaginario, nella nostra mente, per venderci qualunque prodotto, idea politica o provvedimento (come insegna lo scandalo di Cambridge Analytica).


Come è potuto accadere che in tutto il mondo siano state fatte delle strette sulle libertà individuali così significative senza particolari reazioni o proteste popolari?
Perché si è fatto ricorso alla teoria dello shock, terrorizzando e disorientando l’opinione pubblica. Se ci fate caso la narrazione della pandemia è stata di tipo “bellico”: un nemico invisibile (da cui il sottotitolo del mio libro), una guerra, il bollettino dei morti, i medici e gli infermieri eroi come soldati in trincea. Si è voluto inculcare nelle persone l’idea di essere in guerra e che pertanto fosse necessario adottare misure eccezionali.
Inoltre, il potere ha bisogno da sempre di un nemico da combattere. La figura del nemico, infatti, serve alla società per compattarsi e coalizzarsi contro di esso. Il nemico rappresenta una valvola di sfogo per la frustrazione e l’aggressività delle masse, catalizza su di sé la violenza che potrebbe sfociare altrimenti in gesti inconsulti, come spiegava René Girard con la sua teoria del capro espiatorio. Infine, invece di responsabilizzare i cittadini si è richiesto che costoro adottassero una forma di cieca obbedienza, esacerbando il clima di paura e inducendo il fenomeno della delazione.


Qual è stata l’arma (uso questo termine, visto che la pandemia ha militarizzato i paesi) che ha convinto milioni di persone ad accettare droni, multe insensate, e via dicendo? Si possono fare analogie con episodi del passato dove un pericolo è stato amplificato al punto tale da trasformarlo in terrore?
L’arma è stata la paura. La paura è infatti uno dei tanti tasselli nel processo di ingegneria sociale che il potere adotta da secoli. Si induce una crisi o la si strumentalizza per portare avanti politiche che sarebbero altrimenti impopolari ma che la percezione dello shock legittima.
Pensiamo per esempio che una indagine condotta pochi giorni dopo l’11 settembre aveva rilevato che nove americani su dieci dichiaravano di soffrire di sintomi da stress post-traumatico. Il terrore generalizzato, indotto dagli attentati, produsse un’opportunità per il governo Bush, che ne approfittò su diversi fronti: da un lato legittimare la Guerra al Terrore, cioè l’ennesima guerra “preventiva” che in un altro momento non sarebbe stata accettata dall’opinione pubblica, e grazie a questo assicurarsi un’impresa volta al profitto e alla privatizzazione del governo (il “capitalismo dei disastri”), dall’altra restringere la privacy introducendo il Patriot Act.
Come ha spiegato lo stratega polacco Zbigniew Brzezinski, membro del Cfr e cofondatore della Commissione Trilaterale, già consigliere per la Sicurezza Nazionale sotto Jimmy Carter, per ottenere il consenso dell’opinione pubblica, e addirittura una mobilitazione generale e l’accettazione di gravi sacrifici, l’unico modo è che si palesi una «minaccia estrema e globale». Soltanto la “percezione” di un pericolo estremo, immediato e diffuso può compattare la popolazione e spingerla ad accettare sacrifici altrimenti impensabili, persino provvedimenti che in uno stato normale delle cose non sarebbero mai stati accettati. Uno stato di eccezione può modificare anche in modo definitivo e irreparabile la percezione della collettività e portare l’opinione pubblica a legittimare misure impensabili.


Sembrerebbe che siamo di fronte a una necessità che non conosce legge: quale potrà essere il rischio a fine pandemia per la democrazia e per la capacità critica dei cittadini di leggere il mondo attorno a loro?
Il rischio è che certe disposizioni non vengano sospese e che si sia abituata l’opinione pubblica ad accettare maggiore controllo e sorveglianza tecnologica. L’emergenza sanitaria sta aprendo le porte all’utilizzo di dispositivi tecnologici volti a sorvegliare e a controllare la popolazione come un grande fratello elettronico. In stato di paura, come abbiamo visto, l’opinione pubblica si sente disorientata, smarrita: necessita di una guida in quanto ha “perso la bussola”, si sente paralizzata dal terrore al punto da accettare qualunque proposta o intervento venga dall’alto. E arriva ad accettare e legittimare qualunque provvedimento per la sua sicurezza, persino la limitazione della propria libertà e della privacy.


Come giudica l’informazione offerta dai media sulla pandemia?
Nel mio libro, parlo di virtualità dell’informazione: le informazioni, soprattutto nei primi mesi, sono state contrastanti, confuse, contraddittorie. L’indeterminatezza dell’informazione credo sia dovuta in parte alla mancata trasparenza della gestione iniziale della pandemia da parte della Cina e in parte alla diffusione di dati contrastanti e poco chiari da parte degli organi istituzionali e dagli “esperti”. Per settimane neppure i giornalisti sono stati in grado di capire la gravità della situazione, essendo troppo diverse e contraddittorie le dichiarazioni, a volte espresse in modo superficiale e a titolo personale, degli “esperti”. Da qui la percezione, a livello pubblico, di un’informazione “virtuale”.


Qual è la lezione che dovremmo trarre alla fine della pandemia? Abbiamo imparato che anche lo stato di necessità deve avere le sue leggi?
L’ingenuità di fondo è credere che le misure prese in stato di eccezione poi vengano sospese una volta terminata l’emergenza. Come dimostra il caso dell’11 settembre con l’introduzione del Patriot Act, il potere sfrutta momenti di crisi per stringere le maglie del controllo e della sorveglianza sui cittadini. E dopo una emergenza se ne palesa un’altra per poter giustificare di non sospendere le misure liberticide adottate.
Dobbiamo iniziare a non concentrarci esclusivamente sulla sicurezza, che è sacrosanta, ma anche a immaginare come potrebbe essere la nostra società cessata l’emergenza tra qualche mese o qualche anno. Dobbiamo maturare una visione che prenda in considerazione anche le conseguenze a lungo termine delle nostre azioni, soprattutto se queste sono dettate dalla paura per allontanare il rischio di ritrovarci tutti in una società trasparente in cui saremo uomini e donne di vetro sotto il controllo costante del grande fratello elettronico. E dovremmo tornare ad amare le nostre libertà e la privacy: oggi sono a rischio perché siamo disorientati dalla paura e annebbiati dall’emotività.

Pubblicato il

15.06.2020 15:16
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