Mancano ancora sei mesi alle elezioni federali e l’attualità politica e i temi che si imporranno durante la campagna elettorale potranno certamente influenzare voti in un senso o nell’altro, ma già ci sono segnali di uno scivolamento a destra dell’elettorato (almeno di quella parte, in costante diminuzione, che si reca alle urne) e dunque di un probabile spostamento dell’asse politico in Parlamento nella medesima direzione. I risultati delle elezioni cantonali tenutesi il 2 aprile a Ginevra, a Lucerna e in Ticino, ultima importante “prova generale” prima delle federali, indicano che l’onda verde e progressista del 2019 si sta sgonfiando: mentre i Verdi perdono terreno e il Partito socialista marcia più o meno sul posto, si assiste ad una chiara avanzata dell’Udc e dei Verdi liberali, partito di centrodestra con il verde solo nel nome che ormai è presente in quasi tutti i parlamenti cantonali. Secondo sondaggisti e politologi la flessione degli ecologisti è legata all’attutirsi della mobilitazione nella lotta al cambiamento climatico e al venir meno dell’entusiasmo che quattro anni fa avevano generato gli scioperi per il clima e dell’attenzione mediatica al tema, di cui elettoralmente aveva approfittato soprattutto il partito dei Verdi. Inoltre si assiste indubbiamente a un calo di fiducia da parte dei giovani militanti per il clima, probabilmente delusi dagli scarsi risultati ottenuti sul piano politico, dove la destra sta mettendo in discussione addirittura la svolta energetica. Non è un caso che, stando ai sondaggi, il partito ecologista stia perdendo consensi soprattutto tra gli elettori sotto i 30 anni. E poi a pesare c’è la netta sconfitta del 2021 con la bocciatura in votazione popolare della legge sul CO₂, giusta negli obiettivi ma troppo mal fatta e penalizzante per le salariate e i salariati. Il Partito socialista, dal canto suo, pur riuscendo a profilarsi sulla questione del clima, sembra recuperare solo in minima parte gli elettori persi dai Verdi. Il che gli basta per stabilizzare la propria forza, ma non per crescere. L’impegno su questioni di attualità e di centrale importanza, quali la difesa del potere d’acquisto e delle assicurazioni sociali o la lotta per la parità, non sembrano dare grandi frutti in termini elettorali. E anche dalla vicenda di Credit Suisse, nonostante il suo potenziale emotivo, il Ps non trae benefici. Di riflesso, il Plr, tradizionalmente partito delle banche, per ora non paga dazio per questo terremoto del settore. Solo a Ginevra ha perso molto terreno, ma a causa della lista di disturbo dell’ex Pierre Maudet, espulso dal partito ed estromesso dal governo cantonale per una vicenda di corruzione. Altrove marcia più o meno sul posto. Così come il neonato Centro (l’ex Ppd unitosi al Partito borghese democratico), che anzi qua e là (come per esempio in Ticino) persino avanza. L’estrema destra rappresentata dall’Udc, dopo il calo del 2019, ha invece ripreso a crescere in modo sensibile ed è la grande vincitrice delle ultime elezioni cantonali: Basilea Campagna, Zurigo, Ginevra, Lucerna e Ticino. Perché ancora una volta riesce a mobilitare cavalcando la questione migratoria, tornata prepotentemente di attualità con l’aumento delle domande di asilo e l’arrivo in Svizzera di 80.000 profughi ucraini. Una situazione più che sostenibile e gestibile per la Svizzera, ma che l’Udc strumentalizza combinandola con la problematica, vera, della carenza di alloggi: “È colpa dei migranti”, sostiene l’Udc riproponendo il suo “menu” tradizionale: il problema sono gli stranieri. Stranieri che “rubano” il nostro lavoro, la nostra identità, la nostra casa e qualsiasi altra cosa che fa comodo al momento agli interessi di partito. I segnali indicano insomma che la destra sta ulteriormente avanzando (fenomeno peraltro non unico alla Svizzera) e che probabilmente raccoglierà frutti nelle elezioni federali del 22 ottobre, annullando quel lieve spostamento a sinistra prodotto dall’onda verde e progressista nel 2019. Uno spostamento a sinistra a dire il vero impercettibile nell’ultimo quadriennio: basti pensare alle decisioni adottate (o non adottate) dal parlamento in materia di pensioni, di lavoro, di eguaglianza, di equità fiscale eccetera. Non c’è traccia di qualcosa di sinistra o anche solo di progressista. Da questo punto di vista, il bilancio della legislatura (seppur segnata per metà dall’eccezionalità della pandemia) è insomma fallimentare. E questo non aiuta certamente a ridurre la distanza tra le istituzioni e i cittadini, tra le decisioni prese e i bisogni reali del paese e della sua popolazione. Una distanza che anzi aumenta, come testimonia il costante calo della partecipazione al voto, confermato anche nelle citate elezioni cantonali: 38% a Ginevra, 39% a Lucerna e il 56% in Ticino, minimo storico (superava il 70% fino al 1995). Così come aumenta la sfiducia nei partiti: si pensi che in Ticino quasi un quarto degli elettori ha votato la scheda senza intestazione, un quarto di elettori che non è riuscito a identificarsi in nessuna delle formazioni in corsa nonostante “un’offerta” piuttosto ampia di 10 liste per il governo e 16 per il Gran Consiglio. La credibilità della politica è ai minimi storici.
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